La rivoluzione dei gelsomini

ROMA – Il plebiscito, inteso come maggioranza della popolazione favorevole, è la garanzia, o dovrebbe esserlo, che sancisce e santifica l’idea della sovranità, di fatto, da una parte sancisce il potere del governante, prima aspirante a tale, successivamente effettivo, dall’altra, santifica colui che nel regnare elargisce misure e pesi a seconda della distanza dalla leva delle sue braccia meccaniche.

Più si è vicini più si riesce a sentirne il profumo della bellezza e della purezza di spirito, al contrario, maggiore è la distanza  maggiori sono gli effetti della sconfinata pesantezza della vita.
Quest’idea di potere è la forza e la forma dei poteri forti, quelli che si fregiano del plebiscito totale della popolazione e sicure succursali della non idealità della libertà democratica.
In sintesi il capo del governo gestisce il senso della democrazia in base alle influenze del voto sancito dalle urne e nel farlo non lesina la sua libertà di fare ed essere il mandante il valore aggiunto della libertà e della stessa democrazia, come il garante unico del mandato.

Qualche anno fa Gustavo Zagrebelsky, famoso costituzionalista italiano, nel libro Imparare democrazia, Einaudi (Anno 2007) – Pagine 182 – Prezzo 11,50 euro, secondo l’autore, il fine ultimo non è quello di sapere cosa è la democrazia, ma quello di essere democratici, la capacità di “assumere nella propria condotta la democrazia come ideale, come virtù da onorare e tradurre in pratica”.
Zagrebelsky fa notare come il problema della sfiducia e dell’apatia che spesso anima i cittadini, quel dare le colpe di “promesse non mantenute” non è nella democrazia in sé ma nella azioni di ognuno di noi, nella sfiducia che noi abbiamo in noi stessi e nella nostra indifferenz, a tal riguardo poneva la domanda cruciale sulla democrazia, ovvero: vox populi vox dei?
Spiegandone le varie dinamiche Zagrebelskij poneva nella sua disamina alla domanda molte questioni sulla effettualità della premessa alla democrazia, la voce del popolo come garanzia della libertà democratica, il dubbio insinuatosi nella verifica dispiega nel lettore alcune riflessioni relative alla politica e alle sue leggi interne, ma soprattutto nella incarnazione del capo del governo.
La volontà popolare è sinonimo del tutto è permesso?
Stando ad esempio alle parole che spesso sentiamo esprimere dal capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, questa affermazione non solo è corretta nella sua dialettica ma è legittima e legittimata nella sua vita pratica in quanto il popolo decide in quanto ente sovrano e  al popolo si deve rispondere con giusta lealtà.
In una situazione del genere l’unico neo della questione è come si arriva ad una massiccia volontà popolare, ovvero come quel determinato governo è arrivato al potere, in discussione è la liceità del metodo, della forma e dei contenuti simil-politici con il quale quel determinato candidato è salito al potere.
La risposta è SI, tutto è permesso, anche se al potere ci si arriva con un colpo di stato, fraudolento e meschino come nella sua espressione.
Senza citare casi specifici possiamo ben dire che la storia mondiale ha conosciuto e conosce ancora oggi  figure poco raccomandabili e avvezze al mal-potere, per intendere è facile dubitare della regalità del potere quando questi arriva secondo dinamiche illecite.
Non è il caso del citato Berlusconi, vinte regolari elezioni politiche, lecito Governo. Se si vuole fare una critica, sul modello del costituzionalista prima citato, in discussione è la modalità con la quale questo esercizio viene praticato.

La questione in essere è che con il vox populi vox dei si mal-celi il tanto triste fenomeno della dittatura, ed è il caso della Libia, della Tunisia, dell’Iran, dell’Egitto, dell’Algeria, della Siria, dello Yemen e tanti altri stati dove votazioni sullo stile fascista e/o nazista portano al potere figure illiberali e antidemocratiche.
Votazioni farsa hanno spinto in questi Paesi monarchi e dittatori al potere,  da almeno trent’anni assistiamo da testimoni e comprimari alle nefandezze che coinvolgono il Maghreb, il quale vive sotto l’egida della tirannia, del malgoverno, delle malversazioni, del potere corrotto e quanto di peggio un finto vox populi vox dei possa presentare e ci tranquillizziamo tutti dinanzi alle parole di diversi esponenti delle democrazie occidentali i quali lodano le grandi democrazie rappresentate dai vari leader al potere.
Una accondiscendenza da parte del mondo occidentale che ad occhi critici ha sempre destato perplessità e forti dubbi.
Un excursus su titolari dei vari governi al momento ci costringerebbe ad aprire lunghe digressioni utili al nostro caso per comprendere ma, distraenti per lo scrivente, e per quel filo conduttore che vuole portare il lettore ad una domanda semplice e complicata nelle sue spiegazioni.

In una riflessione del 2008 “Povero Maghreb” riportata nel testo la “Rivoluzione dei gelsomini”, Tahar ben Jelloun pone la seguente riflessione, che per noi lettori diventa giocoforza una domanda, un macigno un dilemma da affrontare.
Jelloun scrive:
«Le Nazioni Unite dovrebbero votare una legge che impedisce di riconoscere un regime politico instaurato attraverso un colpo di stato».
Più sotto a conclusione di un ragionamento logico e se si vuole politico sociale umano lo scrittore marocchino scrive:
«Nessun riconoscimento a un regime che si impone con la forza. È ora che le nazioni unite mettano fuori legge i golpisti, ovunque essi siano».
Logica e ragionamento ineccepibili, la democrazia dice lo scrittore è altro dalla forza, e non si commisura a queste dinamiche la legalità dei vari governi tanto che la testimonianza di questa logica dal diritto divino la viviamo in questi primi mesi di inizio d’anno, allorquando interi popoli si sollevano contro i vari regimi a loro confacenti.
Si parte dalla Tunisia, per passare all’Egitto, alla Libia alla Siria allo Yemen.
Cosa accomuna queste rivolte? La scelta individuale prima e sociale poi di ribellarsi al potere corrotto. Detta così non rappresenta niente di nuovo, ma quel che ben si rappresenta alle varie rivolte sono diversi simboli.

Io ne scelgo due, in sintesi:
il primo: se è vero che la democrazia è figlia della volontà popolare, ebbene le rivolte in essere dicono che il potere legittimo esistente non è più legittimato dalla volontà stessa del popolo, si chiede un cambiamento, e lo si fa con la voce corale ed il prezzo del sangue e della vita di centinaia e migliaia di persone che non si ribellano al solo potere del governo ma alla corruzione che esso alimenta, ai fabbisogni non ascoltati, ad una povertà dilagante e disarmante, ad una guerra fra poveri per un tozzo di pane, alla possibilità di un lavoro.
Di fatto, la politica sociale dei regnanti cade nel suo esame più importante, la società e le sue leggi interne che non prevede sconti per nessuno.
La risultante di questa svolta democratica vera è che il popolo esprime un diritto sancito dalla carta dei diritti umani del 1948 ma che pare solo un diritto teorico e che ci porta direttamente al punto due, ovvero:
secondo: non rientra nelle casiste della realpolitik, figlia di interessi e favoritismi ma non di un riconoscimento del diritto alla persona, ovvero petrolio, dollari, clientelismo – base delle reali scelte di governo, incentrate sul guadagno e sullo sfruttamento della popolazione – fan si che la maggioranza dei governi occidentali non solo favorisca e riverisca costoro che salgono al potere ma ne elenchino le grazie dinanzi ai loro sudditi e ospitino costoro come portatori insindacabili di democrazia e più libertà.

 

La questione del Maghreb richiede maggiori sforzi e minori tassi di discriminazione occidentale perché così come schiavi non si nasce ma lo si può diventare allo stesso modo stranieri non si nasce e lo si diventa secondo confini prestabiliti e carte da mostrare per circolare nei paesi del mondo.
Perché i due punti sopra convergono sul male endemico che il mondo occidentale si trova a gestire senza una politica adeguata  e confacente alla situazione, la migrazione dei popoli poveri e in lotta fra rivoluzioni e guerre civili.
Ma questo è altro discorso e prima di chiudere questa lunga riflessione sui perché delle rivoluzioni del Maghreb, riporto ancora le parole dello scrittore marocchino,
«Gli europei non si rendono conto della fortuna che hanno: non solo sono al riparo da colpi di stato ma lo spazio di Schengen è una prova di libertà; non ci sono frontiere fra i paesi europei, si circola senza mostrare il passaporto, si passa da un paese all’altro come si cambia quartiere nella propria città. Questa libertà è un bene prezioso. (…) tutti traggono ricchezza dalla libertà di andare e venire. Non si tratta di disordine, ma di intelligenza».
Concludiamo questa disamina con una domanda provocatoria: la democrazia figlia legittima della volontà popolare potrà mai essere se non figlia biologica almeno parente prossima della realpolitik?

Perché è questa la domanda che pone la rivoluzione in Maghreb al tanto decantato e osannato mondo occidentale – erede della pia democrazia da esportazione -, perché solo in questo modo le morti avranno ragion d’essere altrimenti rimarranno inutili e confinate nella storia come cause accidentali della restaurazione di un potere, quale non si sa ma voluto dal 98% della popolazione.
Il sistema è entrato in crisi, il plebiscito non è più egemonia di nessuno se non della democrazia, quella vera però.

 

 

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