22 maggio Giornata Mondiale della Biodiversità

Legambiente presenta le esperienze italiane su tutela e gestione di fauna e flora

ROMA – Camosci, lupi e farfalle. Ci sono anche loro tra il made in Italy migliore. E possiamo andare fieri delle politiche di conservazione e gestione di questi animali messe in campo negli ultimi anni nel nostro Paese. E’ questo il dato che emerge dal dossier di Legambiente pubblicato per la giornata mondiale della biodiversità che si celebra il 22 maggio, con un’analisi sullo stato della tutela della biodiversità in Italia.

I risultati conseguiti sono, infatti, decisamente positivi. La Commissione europea ha selezionato il progetto di tutela del camoscio appenninico tra i migliori progetti Life Natura terminati nel 2015 e ci sono oggi più di 2000 esemplari distribuiti nei Parchi dell’Appennino centrale. Il lupo è tornato in territori dai quali sembrava scomparso e sebbene non sia ancora fuori pericolo, non rischia più l’estinzione. L’Italia è il paese europeo più ricco di farfalle, con 289 specie “contate”. In particolare, la Sardegna e l’Arcipelago toscano ospitano numerose specie endemiche, cioè che non vivono in nessun altro luogo al mondo, e molte farfalle tipiche del continente si aggiungono alle faune insulari creando combinazioni uniche di specie. Un quadro di cui siamo a conoscenza grazie a 15 anni di studio con la partecipazione di diversi enti pubblici.

Occorre però andare avanti, imparare a replicare le esperienze positive e fare di più, perché nonostante gli sforzi di conservazione messi in atto, lo stato complessivo della biodiversità italiana si è deteriorato.

“La tutela della fauna selvatica – commenta Rossella Muroni, presidente di Legambiente – non è mai facile né scontata, ma a guardare i risultati raggiunti in Italia possiamo dire di essere stati bravi. Abbiamo saputo svolgere un ruolo di primo piano nelle strategie per frenare la perdita di biodiversità, misurandoci contemporaneamente con politiche di sviluppo locale innovative, basate sulla qualità ambientale. La rete dei parchi e delle aree protette presente sul nostro territorio hanno poi fatto la differenza. Come per il camoscio appenninico, che è addirittura diventato un brand utilizzato come richiamo turistico dagli operatori locali. Certo, le criticità non mancano. Il caso del lupo, in particolare, è più complesso e il Piano di conservazione e gestione di questa specie, predisposto dal Ministero dell’Ambiente, ha messo in moto una discussione animata che interessa in generale la gestione della fauna selvatica nel nostro paese. Condivisione, partecipazione e buona gestione sono alla base degli ottimi risultati conseguiti ed è su questa strada che dobbiamo continuare a procedere. Perché se il nostro è tra i paesi europei più ricchi di biodiversità, è anche vero che questa si sta deteriorando rapidamente, a causa di fattori che dipendono tutti dalle attività umane: l’inquinamento, la perdita e frammentazione degli habitat, l’introduzione di specie aliene, il bracconaggio e, non ultimi, i cambiamenti climatici. Anche per questo, riteniamo urgente dare seguito agli impegni presi alla Conferenza sul clima di Parigi”.

Tornando alla situazione del lupo in Italia, è importante sottolineare che la causa principale di mortalità è il bracconaggio, e che la specie non è ancora dichiarata fuori pericolo. “La popolazione è in crescita ma è ancora presto per cantare vittoria – ha sottolineato Antonio Nicoletti, responsabile aree protette di Legambiente – Per questo motivo contestiamo la scelta contenuta nel Piano di gestione predisposto dal Ministero dell’Ambiente di prevedere la possibilità di abbattere il 5% della popolazione di lupo. Pensiamo che legalizzare l’abbattimento dei lupi non risolve in maniera strutturale il problema della convivenza o dei danni provocati agli allevamenti, che paradossalmente potrebbero anche aumentare se si destruttura la popolazione di qualche branco, ed incida invece negativamente sulla cultura e l’educazione alla convivenza. Assolutamente positive le azioni previste nel piano su questi due fronti, ma se passa il messaggio che si può sparare ai lupi viene meno il valore simbolico per cui il lupo è specie protetta e se non è più protetto allora è inutile impegnarsi per mitigare i danni che provoca perché una fucilata risolverà ogni problema”.

Il dossier di Legambiente presenta il quadro dello stato della biodiversità in Italia. L’Italia ospita circa la metà delle specie vegetali e circa un terzo di tutte le specie animali attualmente presenti in Europa. La fauna è stimata in oltre 58.000 specie, di cui circa 55.000 di invertebrati (95%), 1812 di protozoi (3%) e 1265 di vertebrati (2%). La flora è costituita da oltre 6.700 specie di piante vascolari (di cui il 15% endemiche), 851 di muschi e 279 epatiche. Per quanto riguarda i funghi, sono conosciute circa 20.000 specie di macromiceti e mixomiceti (funghi visibili a occhio nudo). Secondo i dati riportati da Lo stato della biodiversità in Italia, realizzato nel 2015 dal Comitato Italiano IUCN, in collaborazione con Federparchi e con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, sono a rischio di estinzione 596 delle specie campionate, pari a oltre un quinto del totale. Il trend della conservazione degli uccelli e dei mammiferi in Italia è in linea con quello globale. Il 25% dei mammiferi del pianeta rischia di scomparire nel giro di pochi anni, ma l’andamento del loro status è contraddittorio. Diverse specie oggi si trovano in condizioni nettamente migliori rispetto a 30 anni fa, grazie soprattutto alla corretta gestione delle popolazioni nelle aree protette. Per altre, invece, la situazione è nettamente peggiorate, come per esempio per i pipistrelli, a causa del degrado degli ambienti che essi frequentano e di un interesse solo recente per la loro conservazione. Un altro aspetto preoccupante è che per 376 specie, in particolare invertebrati o ani¬mali di ambiente marino, il rischio di estinzio¬ne è ignoto. Questo dimostra che sebbene la biodiversità nel nostro paese sia relativamente ben studiata, ancora molto resta da scoprire e imparare.

Tra i fattori di perdita di biodiversità identificati dal Millennium Ecosystem Assessment (un progetto di ricerca delle Nazioni Unite per analizzare i cambiamenti subiti dagli ecosistemi e identificare gli scenari futuri, che ha affermato che il mondo sta degradando le proprie risorse naturali, con conseguenze che cresceranno in maniera significati¬va nei prossimi 50 anni) figura anche l’introduzione di specie aliene. Negli ultimi 30 anni, infatti, il numero di specie alloctone sarebbe cresciuto del 76% a livello mondiale con una spesa per i soli Paesi europei di oltre 12 miliardi di euro all’anno. L’Italia attualmente “ospita” 3000 specie alloctone terrestri, di cui 1645 specie animali e 1440 vegetali. Numerose anche le specie aliene tra gli invertebrati: 1.300 di cui circa 1.220 terrestri e 156 d’acqua. Il tema è stato oggetto di discussione delle politiche ambientali in Italia e in Europa solo da pochissimi anni. Da gennaio 2015 è entrato in vigore il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio “Recante disposizioni volte a prevenire e a gestire l’introduzione e la diffusione delle specie esotiche invasive”. Ci si baserà su un elenco di specie di interesse dell’Unione, da elaborare con gli Stati membri sulla base di valutazioni di risk assessment, che si concentrerà sulle specie che causano i maggiori danni, sia alla biodiversità, sia ai diversi settori socio-economici. Le misure più restrittive si applicheranno inizialmente a una lista di 37 specie invasive identificate sulla base di analisi del rischio. Questa lista, in corso di formalizzazione, comprende 22 specie presenti in Italia, tra cui la Nutria (Myocastor coypus), il Gobbo della Giamaica (Oxyura jamaicensis), il pesce d’acqua dolce Pseudorasbora parva e la Rana toro (Lithobates catesbeianus), invertebrati quali il Calabrone asiatico (Vespa velutina) e il Gambero rosso della Luisiana (Procambarus clarkii), piante come la Ludwigia grandiflora, Pueraria lobata e Hydrocotyle ranunculoides.

Tra i punti critici spicca inoltre il sovra sfruttamento degli stock ittici. Attualmente i 7 miliardi di abitanti della Terra occupano il 30% della superficie e dipendono dal rimanente 70%, costituito da mari e oceani che, oltre a essere una grossa riserva di biodiversità, sono la più importante fonte di cibo al mondo. Le catture globali annue di pesci, crostacei, molluschi e altri animali acquatici sono aumentate fino a raggiungere i 93,4 milioni di tonnellate nel 2014. A questo dato, però, mancherebbe circa un terzo delle quantità di pesci realmente pescati in tutto il mondo, perché non tiene conto di pesca artigianale, illegale e “sportiva”. Per il Mediterraneo, la situazione è ancora più allarmante: il 96% degli stock ittici è troppo sfruttato, e la pressione supera fino a nove volte il rendimento massimo sostenibile, soprattutto in Spagna, Francia, Croazia e Italia. Tra il 1950 e il 2010, le catture nel Mediterraneo, con picchi massimi registrati negli anni 90, risulterebbero superiori del 50% rispetto alle statistiche ufficiali. In Italia, si arriverebbe addirittura a 2,6 volte, di cui il 54% proveniente dalla pesca illegale realizzata anche con reti ferrettare e spadare.

La grande sfida della conservazione della biodiversità sarà oggetto della tredicesima Conferenza delle Parti della Convenzione sulla diversità biologica che si svolgerà a Cancun in Messico dal 4 al 17 dicembre 2016. Un’occasione per fare il punto anche sul Piano Strategico globale per la Biodiversità 2011-2020 e sul raggiungimento degli obiettivi indicati. Qualora non si riuscisse a tutelare la biodiversità, infatti, il costo dell’inazione a livello mondiale, entro il 2050, supererebbe gli 11 miliardi di euro all’anno.

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