L’odore del male

Sentimenti. Rimorsi. Né gli uni né gli altri. Neppure nostalgia. Era stiratrice in alcune ambasciate. A volte viaggiava con le famiglie dei diplomatici  per  lunghi periodi spostandosi all’estero; paesi che non visitava mai, ma di cui conservava le cartoline.

Conosceva le loro manie, fobie; sapeva molti dei loro segreti. Gli uomini cambiavano almeno tre camicie al giorno, le donne erano fissate sulle lenzuola che andavano sostituite ogni giorno e anche dopo la siesta pomeridiana durante il periodo estivo. Lei lavorava, invisibile nella sua divisa azzurra impeccabile. Stirava pile di biancheria pregiata; lini bianchi o pastelli impreziositi da merletti e ricami “ton sur ton” pregni di storie privatissime. Lei se ne stava in silenzio, sollecitando il suo intuito, una sorte di preveggenza per scoprire i segreti nascosti fra le pieghe scure delle bugie.  Storie di tradimenti, di lusso, storie di sprechi consumati fra bolliccine ghiacciate e vomito. Quelle macchie restavano tatuate sotto pelle, solo la coscienza avrebbe potuto sconfiggerne le tracce.

Cioccolato, champagne e fragole in abbondanza nei letti, sulle federe,  sul palcoscenico di vite intorpidite e rese infruttuose dalla noia, dal dolor di vivere senza talenti.  Lei, leggeva nelle pieghe e nelle macchie di notti da scordare. Svanite all’alba la fragranza dei fiori essicati al sole della Provenza che distribuiva in sacchetti di tulle nel grande armadio bianco della biancheria; restava soltanto l’odore del male nella foschia del nuovo giorno. Lei, nella solitudine e il nitore di un lavoro onesto, osservava il fango lanciato contro il cielo, schizzato sulla via lattea ad oscurarne l’aurea. Pensava, mentre sbuffava vapore dal suo nuovo bolide, “La Ferrari dei ferri da stiro”. Mancava solo che fosse rosso. Quante ne aveva viste e sentite.

Pensava. Forse sarebbe stato meglio non avere lasciato il convento, essere rimasta per sempre fra quelle mura screpolate da secoli, gentili pensieri, vagabondaggi in bianco e nero: innocenza sprecata. Dentro il convento, all’interno della fortezza,  le sorelle e la madre superiore pensavano che fosse un poco ritardata; dicevano “candida”, ma intendevano qualcosa altro, un malevolo giudizio, lei lo aveva capito e taceva. Fu per quello che la “regalarono” ad una ricca famiglia per stirare, questo almeno aveva dimostrato di saperlo fare per le sue sorelle “apprettate”.

Pazienza se Dio non si faceva pregare da lei. In convento mangiavano gli scarti di un supermercato poco distante, scarti per scadenze. Almeno dagli ambasciatori gli avanzi erano succulenti, ma finiva per sentirsi in colpa poichè comunque restavano ancora avanzi ed era peccato. Allora lei, a tarda sera, frugava nei sacchi della spazzatura senza far rumore e raccattava tutto quello che c’era, lo metteva in un sacco nero che nascondeva sotto il grembiule poi, con passi felpati, raggiungeva i cani che non avrebbero abbaiato al suo arrivo. Dormiva sotto i tetti in una stanzetta che aveva un oblò per finestra che il tempo troppo freddo o caldo aveva finito per sigillare. Non c’era stato nessun uomo nella sua vita, neppure nei sogni. Si arricciava i capelli color stoppa usando un vecchio ferro che scaldava su un piccolo fornello alimentato da alcool senza mai guardarsi allo specchio. Il fard sulle guance era sempre troppo rosa ma non lo notava nessuno. La solitudine abitava la sua esistenza ordinata senza pesarle.

L’ingiustizia invece le rivoltava lo stomaco, la mancanza di rispetto, di dignità di certa gente le ripugnava, gente che sporcava incessantemente tutto e tutti. La musica delle feste date nei grandi saloni del piano padronale  le arrivava in stanza assieme al tintinnio dell’argenteria che già si lustrava per il giorno seguente, il tonfo delle bottiglie di champagne vuote che impilavano a piramide nel ripostiglio. Ci sarebbe stato da mangiare per giorni, fino alla prossima festa e da stirare, smacchiare tovaglie sulle quali era colata la cera delle candele. Il maggiordomo  rifiutava piattini di vetro per evitare quell’inconveniente, l’etichetta diceva, allargando le narici come un pesce palla fuor d’acqua, non lo consentiva. Lei accendeva una radiolina e ascoltava Billie Holliday, Glenn Gould, fumava il rimanente dei sigari spenti abbandonati nei posacenere d’argento. E stava bene.

Un giorno, riponendo la biancheria perfettamente stirata e profumata nel bagno della Signora vide il suo favoloso solitario sulle mattonelle accanto al lavandino di marmo chiaro. Vista da vicino la pietra sfaccettava la luce rinfrangendo il bagliore delle appliques al muro. C’era confusione nel bagno; bicchieri rotti, biancheria intima abbandonata dentro alla vasca, abiti maschili che non appartenevano al Signore ambasciatore. Non chiamò la guardarobiera. Penso all’inutilità dell’effimero, alla morte per fame e disidratazione, al sangue versato per guerre inutili, alla dignità negata ad interi popoli e razze. Non provò nessuna voglia di infilarsi l’anello sacro, sfavillante di luce al dito, neppure per un solo istante. Lo prese con estrema cautela, lo gettò nel water e azionò lo sciacquone.  Provò sollievo e sorrise a se stessa.

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