Come fossero sbarre di una prigione

Sono le otto, abbiamo appena terminato di distribuire la cena. Il mio turno è finito. Sentiamo urlare dall’ufficio. E’ in atto una protesta, cinque ragazzi, in attesa che si sblocchi la situazione relativa ai loro documenti, hanno deciso di manifestare il proprio dissenso. Uno dice che non uscirà da quella stanza fino al giorno in cui avrà il permesso di soggiorno, gli altri dicono di avere paura, lo fanno in diversi modi, con diversi linguaggi.

Alcuni teneramente, con le lacrime agli occhi: “tra poco abbiamo 18 anni, e allora? Allora saremo clandestini. Dovremo lasciare il centro e tornare in Egitto”. Altri con violenza, uno si attacca con l’operatore di turno. Petto a petto, l’utente all’operatore: “Risolviamo la faccenda qui fuori”. Li divido, prendo da parte il ragazzo, gli prendo la mano, lo invito a guardarmi negli occhi e lo abbraccio. Lui respira forte e mi dice: “E’ difficile!”. Io gli faccio l’occhiolino e “stai tranquillo, chiameremo il comune nuovamente. L’importante ora è non fare stupidaggini”. Dopo trenta minuti la situazione sembra volgere alla calma. Sono un’ora fuori dal mio turno. Saluto tutti. Saluto anche Selo, un ragazzo del Sudan. E’ appoggiato alla ringhiera. Il suo saluto è spento. E’ sordo, appena pronunciato. Mi avvicino: “Selo cosa hai?”. E lui: “ avevo chiesto di uscire domani mattina, ma la responsabile mi ha detto che non posso. Io la capisco, ma per me è importante”. Mentre parla gli occhi si chiudono per qualche secondo e il suo corpo sembra cedere, appoggiandosi di botto alla ringhiera. Aggrappandovisi, come fossero sbarre di una prigione. “Selo, se è così importante una soluzione la possiamo trovare, posso chiamare la responsabile e spiegarle la situazione”. E lui: “No, io rispetto la responsabile”. Il suo corpo sembra rimbalzare per poi attaccarsi a me, stringermi forte.

“Selo, sei libero di fare quello che vuoi domattina, ci penso io all’autorizzazione. Selo, Selo!” Lo porto in ufficio, lo faccio sedere sul divano. Il ragazzo perde i sensi, il suo corpo ha dei movimenti incontrollati, dei piccoli scatti, prima le gambe, poi i piedi, il suo respiro va veloce, il suo cuore di più. Gli occhi chiusi, il sudore. L’ambulanza non arriva. Passano altri venti lunghi minuti e lui steso, in questo mondo, con la testa che scoppia. Selo è un ragazzo timido, educato, dolce. Ama l’italiano e quando si presenta dice sempre: “Sono un bambino, tu hai figli?” Fa impressione la sua purezza, contrasta col suo fisico e forse con la sua storia. Dimostra più anni di quelli che dice di avere, diciassette. Anche il suo è stato un viaggio difficile, la Libia, le rivolte, gli sfruttamenti, il mare, hanno filtrato le sue speranze e ridotto, se non cancellato, distrutto, i suoi legami familiari. Arrivata l’ambulanza, il ragazzo esce in barella, ancora privo di sensi. Tutti gli utenti sono preoccupati, alcuni pensano che sia morto. Vorrebbero seguire a piedi l’ambulanza. Li convinciamo ad attendere. “Io vado con lui, poi vi chiamo e vi aggiorno”. Spiego ai dottori che il ragazzo segue una terapia per la depressione. La notte si fa fonda e poi si fa silenziosa. Dopo più di 6 ore apre bene gli occhi, verso le 4 e mezza. Mi segue, mi risponde con la testa, ma non riesce ancora a parlare. E’ una comunicazione strana, quella che si instaura tra di noi.

Ma necessaria, è lui che mi fa capire con le lacrime, con la testa e con i mezzi sorrisi che vuole che io parli. E come un auditel della vita, sceglie i miei discorsi, sceglie le mie parole, guida il mio francese. Capisco che lui sa che quello che lo fa star male, è il ricordo del suo passato. Un ricordo vivo, a cui vorrebbe rinunciare. Ma non ci riesce. Mi fa arrivare con le smorfie, e mi conferma poi con dei cenni, che dimenticare quello che ha passato significa anche dimenticare la sua famiglia. Guarda il soffitto e si gira solo se smetto di parlare. Non so come, ma mi confida che aveva chiesto di uscire perché voleva andare da solo in ospedale. Si vergognava a dirci che stava ancora male, nonostante le nostre cure, nonostante le medicine. Mi spiega che non è convinto dei farmaci che assume, che secondo lui non funzionano perché non annullano i brutti pensieri. Mi alzo in piedi. Lo guardo dall’alto: “Sei bravo, giovane, le medicine ti possono aiutare, ma sei tu che devi continuare a lottare. Per svuotare la tua testa delle cose brutte pensa alle cose belle. Rischia. Pensa all’oggi. Sei in Italia e in poco tempo hai già imparato un po’ la nostra lingua, la nostra cultura. Hai tanti amici al centro. Gli altri utenti ti rispettano, ti stimano. E poi… poi se non ti accontenta l’oggi guarda oltre. Pensa al domani e cerca di pensare sempre cose belle. Riempi di sogni il domani. Riempi di sogni la tua testa. Così troverai tanta forza. Ce la puoi fare. Ce la farai”. Mi rimetto seduto, lui continua a guardare in alto, l’ennesima lacrima gli corre sul viso.

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