Senza permesso con il diritto di stare in questa terra

Il primo gennaio 2012 Ehmad avrà 18 anni, non sarà maggiorenne, diverrà clandestino. Non ha ancora la tutela, il suo percorso per ottenere la protezione internazionale è bloccato e per quanto si possa correre contro il tempo, le possibilità di un miracolo dalla questura e dal comune sono ridotte al lumicino.

Lo sa, lo avverte ed è per questo che col passare dei giorni diminuiscono i suoi giochi, i suoi sorrisi e aumenta il suo processo di invecchiamento, di intristrimento. Il suo è stato un viaggio disperato, pieno di illusioni e buone speranze. La famiglia ha pagato 40.000 lire egiziane per farlo imbarcare, arrivato a Lampedusa è scappato per approdare a Roma. Dopo qualche notte a Termini è stato collocato nel nostro Centro per minori. Pensava di trovare un grande lavoro, di trovarlo facilmente, di pareggiare i debiti e di aiutare la sua famiglia. Credeva che nel giro di un mese la sua vita sarebbe cambiata. E’ agile, intelligente, simpatico, all’inizio sembrava indomabile. Ora sembra aver vissuto tutta la sua vita senza aver goduto del tempo. Il mese al centro è stato faticoso, ogni giorno si è allontanato senza autorizzazione per cercare lavoro. Rischiando. Rischiando grosso. Poi, ieri una telefonata lo ha sconvolto, è morto il padre. Quando sono arrivato lo ho visto girare con un mestolo di ferro, minacciando tutti e gridando come un dannato. “Voglio i miei documenti! Voglio i miei cazzo di documenti!” Poi: “Vaffanculo Italia! Vaffanculo Centro! Vaffanculo a tutti!”. Un suo amico cerca di tenerlo e lui lo prende a spinte fino a farlo cadere per terra. Punta un educatore: “Vieni qui, vieni qui!”. E’ spaesato e non sa a chi aggrapparsi, cerca un’uscita inesistente, non si sa dare pace. E’ lontano e non vuole tornare. Se va lascia ogni speranza, ma al contempo la speranza è bassa. Al telefono con i parenti non sa quale realtà affrontare. Non sa cosa dire. “Mio padre è morto, mia madre e mia sorella stanno male ed io? Io sono qui”. Mi confida che a peggiorare le cose c’è un aguzzino che lo minaccia: “O gli restituisco i soldi del viaggio o si vendicherà su mia madre”. Il ragazzo si sente impazzire.

Alla sua richiesta di protezione purtroppo non siamo noi che possiamo dare risposta. Gli spieghiamo che presseremo sugli organi competenti, che parleremo con un legale, ma ad Ehmad questo non basta. Allora corre per le scale, si incurva per passare tra tutti noi e oltrepassa anche il cancello. Esce, scappa, verso il buio della città. Dopo mezz’ora è nei pressi del Parco, lo vado a cercare. Ha perso il giacchetto, si è tolto il maglione ed ha un coltello in mano. C’è il silenzio attorno e c’è il sangue. Le foglie degli alberi accarezzano le sue paure. I suoi respiri accompagnano le sue chiare parole: “Voglio morire. Non c’è più un motivo per continuare a vivere”. Quel coltello maledetto continuava a scarificare le sue braccia alla ricerca di una nuova pelle o di una vena buona. Una vena che saziasse la sua sete di dolore, uccidendo tutte le sofferenze. I colori della notte trasformavano ai miei occhi i suoi tagli in itinerari e le sue braccia in cartine geografiche. Mi sono concentrato sul viso, dove le lacrime avevano costituito de mari. Dei mari navigabili. Ho cominciato a parlare di mio nonno, di quando è morto mio nonno. E lui ascoltava, aveva bisogno dopo tutto quello sfogo di un semplice abbraccio, ma sapevamo bene che dovevamo costruirlo. La mediazione era il ricordo comune. Così io gli ho detto che doveva andare avanti per la sua sorellina, che il ricordo del padre lo aiuterà ad affrontare la vita e che ha tutto quello che serve per farcela. Mi ha stretto forte. L’ho riaccompagnato in struttura, i miei colleghi hanno disinfettato le sue ferite alla meno peggio in attesa di un dottore. Nessun punto, ma segni che resteranno. Se la sua esistenza è oggi invisibile per lo stato italiano, se la sua voce è muta e i suoi sogni incubi, il suo corpo, le sue braccia, il suo sangue sono reali. Come i suoi sentimenti. E allora tagliarsi significa chiedersi “Esisto? Posso lasciare delle tracce? Sono vivo?”, fino a “Vediamo se è meglio morire, se posso morire, se qualcuno me lo impedisce”. “Vale più la mia vita o i miei documenti? Allora datemeli!” E poi: “A me non interessa quel pezzo di carta, io vorrei tornare in Egitto. Ma non posso”. “Voglio stare con la mia famiglia, ma è per loro che sono qui”. “Non ho più nulla da sperare, ma devo sperare”. Dall’essere adolescenti all’essere clandestini il baratro delle ingiustizie affonda il tempo, congela i ricordi, attacca le identità, svernicia le immagini di sé. Ma a 18 anni si è ancora ragazzini. Anche se senza permesso si è ancora esseri umani. Il viaggio sarà più lungo, più difficile? Ci vorrà ancora del tempo prima di abbracciare i nostri cari? Il viaggio è finito? Eppure è nelle difficoltà che si acquisisce il diritto a stare in questa terra.

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