Areamag. Un ‘cantautore europeo’ dalle mille sfumature. L’intervista

Abbiamo intervistato Gabriele Ortenzi, in arte Areamag, un giovane cantautore eclettico e multiforme, ma soprattutto un artista lontano da qualunque logica di mercato e di show business. Ha esordito, nonostante una lunga gavetta alle spalle, un anno fa, con un album autoprodotto dal titolo Si salvi chi può. Un disco di denuncia, ‘politico’ che tra amarezza e gioco, tra dramma e ironia, in maniera del tutto disincantata, si focalizza sugli aspetti di una società ‘decadente’ o forse ‘già decaduta’.  Non è  allora un caso la scelta di un titolo tanto emblematico e apocalittico.

L’Intervista 

Puoi raccontare come nasce Areamag e il motivo della scelta di questo nome? 

Mi rendo conto di quale privilegio sia potersi scegliere un nome, invece di usare quello assegnatoti dal fato o dai tuoi genitori, o seguire i consigli di uno pseudo produttore che voleva chiamarmi “Gabriel”, magari con tanto di vestito di bianco, passeggiata sul mare con un ciuffo di capelli al vento come in una puntata di “Love Boat. Beh, non ho usufruito di nessuna di questa possibilità, ma mi sono affezionato per caso, e senza pensarci troppo, ad “Areamag”, riduzione derivata da “Area Magenta”, nome della prima band in cui, per la prima volta,dopo tanti anni passati seduto dietro a una batteria, figuravo come autore e cantante.

Mi fa pensare a un gioco, e visto che io con la musica ci gioco, trovo mi calzi a pennello.

Tu ami definirti “cantautore europeo”, così compare anche nel tuo sito. Per quale motivo proprio  “europeo” e non “italiano” o anche “internazionale”? 

Da una parte è un modo scherzoso per sfuggire dalle definizioni che molto spesso ti inglobano in nomenclature di origine geografica (Tipo “scena musicale romana”); inoltre mi piace pensare che una parte del vecchio continente sia sommerso sotto l’influenza culturale ed economica americana e possa scrollarsi di dosso questa crosta terrena come un drago che si risveglia dopo secoli. Ecco, io sto dalla parte del drago. 

I tuoi non sono semplici concerti ma un qualcosa di più, infatti entra in gioco anche un certo “fare teatrale”. Si assiste ad uno spettacolo che è una commistione di arti, un mix di genuinità musicale, sincerità espressiva ma anche vera e propria teatralità. Non è allora riduttivo definirti semplicemente cantautore, vista la tua poliedricità espressiva e la tua capacità di performer a 360 gradi?

Per me al primo posto c’è la comunicazione. Considero il pubblico un insieme di entità differenti dotati della propria chiave di lettura, sintonizzati su una  frequenza personale con la quale entrano in contatto con lo spettacolo. C’è chi rimane ipnotizzato nel sentire il suono del theremin, chi ascolta solo i testi delle canzoni, chi si dedica all’analisi dettagliata della tua strumentazione tecnica, chi sta lì distrattamente e capta una sensazione di sottofondo, c’è chi si commuove perché una determinata frase è stata detta in un certo modo con una specifica musica nel momento giusto, chi sta lì perché gli stai simpatico, c’è chi vuole ascoltare il concerto e ogni 5 minuti fa “Shhhh” agli altri, chi aspetta solamente il momento in cui suono la voce con la loop station, chi chiacchiera perché non sapeva che c’era un concerto, e cosi via. Insomma, quando si sta su un palco si cerca di parlare utilizzando diversi registri. Da una parte è un’esigenza dello spettacolo quella di essere una forma funzionale a fruire determinati contenuti, dall’altra, a differenza per esempio del teatro, in un concerto il pubblico è partecipe, non se ne sta al buio e in silenzio, quindi mi viene più semplice considerarlo parte attiva dello spettacolo. 

Sei molto attento ai temi sociali: prostituzione, inquinamento, ecologia. I tuoi sono testi “politici”, visto che prendi posizioni definitive e nette rispetto  a queste tematiche. Pensi che l’arte in generale possa avere una qualche influenza sulla società, che sia in grado di risvegliare le coscienze? Che possa diventare fenomeno di opposizione rispetto ai modelli socio-economici e culturali che ci vengono proposti?

Infine è in grado di spingere e stimolare un’azione di ribellione?

Certo. Si potrebbe fare una guerra con l’arte. Non solo con le canzoni, spettacoli, cinema e le classiche forme che conosciamo, ma ci sono anche nuove soluzioni per “colpire” il nemico. Mi viene in mente “Guerrilla gardening” ad esempio, che non spargono semplicemente semi in aiuole pubbliche, ma è uno dei tanti modi per coltivare un mondo migliore.

Mi vengono in mente anche forme di partecipazione dal basso, come progettare una bonifica di un territorio abbandonato chiedendo direttamente ai cittadini, creando un bando per writers se c’è un tumore di cemento che deturpa il paesaggio. Tutto questo senza aspettare il colpo di genio dall’alto, o che si muova l’artista tal dei tali, o “che qualcuno ci pensi”.

L’arte difficilmente è separabile dalla politica, altrimenti sarebbe mero intrattenimento…

ma questo è un altro argomento. 

Ci spieghi chi è “l’omino” a cui fai riferimento nel tuo disco “Si Salvi chi può”?

L’omino è questa specie di uomo che abita il mondo in questa epoca. Un uomo che ormai è troppo lontano dall’uomo vitruviano, sia per proporzioni che per capacità di relazionarsi con l’ambiente. Un uomo che non riesce più ad ambientarsi nel pianeta e, piuttosto che adattarvisi, lo piega ai suoi voleri: se ha freddo lo riscalda, se ha caldo lo raffredda, se è lontano lo avvicina, se è alto lo abbassa, se è profondo lo porta in superficie, se è bello lo rende brutto. E’ quello che saremo o che già siamo. E’ quello che pensa che la fine dell’uomo sia la fine del mondo, ma non sa che le piante se la ridono! Insomma sarebbe ora che questo “omino” faccia qualche passo indietro. 

Tu appartieni a quella che si definisce ‘scena indipendente della musica italiana’. Ti senti un artista di nicchia? Essendo “maturo” da un punto di vista artistico e con alle spalle un bel po’ di gavetta, aspiri ad un successo di pubblico più ampio o preferisci prediligere la qualità alla “popolarità”?

A me già stupisce che qualcuno mi stia facendo un’intervista. Detto questo non penso ci sia ufficialmente una scena indipendente e una no: sono le facce della stessa medaglia.

Io credo che l’indipendente rimarrà in eterno tale non per una questione di buona o scarsa qualità, ma per una questione di notorietà. Chiunque stia sulla scena per più di 15/20 anni, diventa inflazionato. Per dirla terra terra: se a un gruppo indipendente dopo 10 anni di gavetta capita di andare a Sanremo e di avere più visibilità in radio e canali musicali, automaticamente diventa di successo e, come si dice, commerciale! Ma io credo che dal momento in cui ti metti un polsino di pelle, una giacca di un certo tipo, ti acconci i capelli in un certo modo e fai 10 dischi usando gli stessi accordi, gli stessi argomenti e le stesse sonorità, commerciale lo eri già, nel senso più puro del termine. Insomma mi stai vendendo qualcosa…o il banchetto con le magliette e le spille è un’allucinazione in omaggio con la 5° consumazione?

Quindi, tornando alla domanda, non metterei in contrapposizione qualità con popolarità, in ambito pop si possono trovare molti progetti di qualità superiore rispetto al mondo indie (e viceversa ovviamente), per diversi motivi, primo fra tutti i mezzi di produzione. Ma credo che, da un certo punto in poi, certi argomenti non rientrino più nelle competenze dell’artista. Forse è il caso che l’artista non abbia mai la consapevolezza del suo successo.

A proposito di popolarità che ne pensi dei talent show? 

A un certo punto della mia vita ho deciso di non possedere più un televisore in casa, non per essere più figo o fare “l’alternativo” a tutti i costi, ma gli avevo già concesso troppo ed era arrivato il momento che la mia “baby sitter catodica” andasse in pensione.

Nonostante questo, so bene cosa sia un talent show: è un modo per le case discografiche di assicurarsi il successo, facendo prima raggiungere la notorietà all’artista attraverso il format. Una volta garantita la fama, prendono questo ragazzo e lo rinchiudono in sala di incisione per fargli fare un disco, che sicuramente venderà, non per la sua qualità – che ci sia o meno non importa – ma perché è il disco di quel personaggio ormai noto e al quale ti sei affezionato, votandolo, seguendolo e di cui, forse, ti senti quasi il pigmalione.
Io spero che prima o poi qualcuno, invece dell’autografo, richieda indietro i soldi degli sms che ha speso per rendere famoso qualcuno, sarebbe una bella gag. 

Ci sono musicisti o artisti che hanno avuto una particolare influenza sul tuo lavoro?

Quando si ha a che fare con qualcosa di intangibile come la musica, le influenze possono venire da diversi ambiti, non per forza da altri musicisti. Ci sono dei codici nascosti in ogni tipologia di linguaggio che riusciamo a percepire con tutti i nostri sensi. A volte credo che il profumo di una torta di mele che cuoce nel forno possa influenzare la decisione di un arrangiamento; senza accorgertene magari scegli di utilizzare una chitarra classica, invece di una chitarra acustica.

In generale a me piace percepire le influenze, ho scritto un paio di brani con delle sonorità balcaniche e mi hanno definito “caposseliano”, ho scritto un paio di brani con uno stile rap, con testi serrati e andamenti ritmici tra il funky e l’Hip Hop e mi hanno dato del “caparezza”; si cerca sempre di associare qualcosa a ciò che nel tuo archivio culturale sembra essere più vicino, come se le associazioni fossero calamitate.

Lo ribadisco, io gioco con la musica e magari in alcuni brani può capitare che abbia voglia di utilizzare un modo di scrivere alla Eminem, ad esempio, così lo studio e lo utilizzo in maniera parodistica. La stessa cosa accade se devo scrivere una colonna sonora di uno spettacolo Flamenco; faccio ascolti, studio le partiture dei brani, e così via…   Oppure se parlo di una storia ambientata a Bucarest o in Albania è normale per me che vada a studiare tutti i riferimenti musicali possibili da poter utilizzare, o da evitare assolutamente. Ci tengo a non essere un portatore sano di genere musicale, utilizzo la musica con ampia libertà, non posso e non voglio dire “faccio questo o quell’altro genere”. Io racconto storie a cui cerco di mettere il vestito più adatto. 

Progetti futuri? 

Da qui al 2013 farò il performer nell’ultimo spettacolo teatrale di Simone Cristicchi, che si intitola “Mio nonno è morto in guerra”. Lì suonerò strumenti giocattolo, theremin, effetti vocali, glockenspiel e altri strumenti inusuali.

Nel frattempo coltivo nuovi progetti che partono dalla musica, buttando già un occhio alla raccolta di canzoni, fino ad arrivare alla Permacultura: un modo per spostare l’ago della bilancia dalla parte della natura e di un immediato futuro più vivibile.

Un progetto che voglio realizzare a breve, è trasformare il sito www.areamag.com in un blog ricco di contenuti musicali ed extramusicali, video, progetti, esperienze, idee, etc…

Areamag è vincitore del Premio Amnesty International 2011, con il brano Tana Libera Tutte, sulla tragedia dello sfruttamento vissuto dalle prostitute minorenni dell’Europa dell’Est.

Video Tana Libera Tutte 

Condividi sui social

Articoli correlati