Sex in the city … a Roma … ad agosto. Un romanzo di Francesco Costanzo

Primo capitolo … nel quale si tratta dei dolori del giovane Francesco che …

Rischiavo di cadere dal balcone ogni volta che sentivo i suoi tacchi sbattere sull’asfalto del cortile del mio palazzo.
Perché non capitava mai che lei usciva di casa quando io stavo nella camera da letto.
In quel caso mi sarebbe bastato compiere pochi passi, aprire la porta del balcone e affacciarmi.
E invece no. Ogni volta che sentivo che era uscita di casa e che quindi avevo a disposizione al massimo dieci secondi per vederla, dovevo scapicollarmi o dal soggiorno – quando andava bene- o dalla cucina.
Nel primo caso riuscivo a gustarmi almeno i cinque secondi di camminata dalla metà del cortile fino al portone del palazzo.
Nel secondo caso riuscivo solo a vederla nell’attimo in cui apriva il portone e poi successivamente si dileguava dalla mia vista, dirigendosi verso la sua macchina e lasciando i miei occhi ancora affamati del suo corpo.
Ogni volta comunque dovevo correre velocemente per tutta la casa, evitare le scarpe e i libri lasciati sul pavimento di casa e riuscire a frenare in tempo utile per potere appoggiare le mani sul muretto del balcone e sporgere il mio viso verso il cortile, evitando di scavalcare il muretto con tutto il corpo e di finire dal secondo piano direttamente su di lei.
Finora non avevo rischiato mai veramente. Ormai l’operazione era collaudata, la mettevo in pratica almeno due volte al giorno.
Ma perché ormai il percorso era studiato. I libri sul pavimento erano sempre su per giù negli stessi posti, così come le scarpe.
Bastava un niente però, ne ero consapevole.
Bastava spostare di un centimetro la posizione di un libro o di una scarpa e sarei finito di sotto.
E proprio per questo che avevo studiato un piano b, più difficile da eseguire, ma meno rischioso.
Mi ero cioè allenato ad anticipare i tempi, a capire cioè il momento esatto in cui stava uscendo di casa.
Avevo infatti calcolato che se riuscivo a sentire il momento in cui dava la prima mandata per chiudere la porta di casa, avrei avuto altri cinque secondi a disposizione, durante i quali, se mi trovavo nel soggiorno o in cucina, avrei potuto con una buona prontezza di riflessi, aprire la porta di casa, scendere le scale e raggiungerla proprio a metà del cortile, per vederla a trenta centimetri di distanza.
Sfortunatamente la prima volta che volli provare questa variante, mi trovavo nella camera da letto.
E quindi sarebbe stato più facile per me affacciarmi al balcone.
Invece volli provare egualmente il piano b, ma nonostante uscii in modo perfetto di casa, facendo il pelo ai muri e scendendo le scale a due a due, quando arrivai nel cortile, lei era già in macchina e non mi parve il caso di andarla a bussare al finestrino. Avrebbe capito che non era un incontro causale.
La seconda volta ci riuscii però. Ero vicino alla porta di casa. Mi parve di sentire la chiave che girava nella serratura, scattai velocemente.
Quando arrivai in cortile, ero addirittura in vantaggio di qualche secondo.
Ma ero esausto, non avevo più fiato. Così quando lei mi passò davanti non riuscii neanche ad articolare un saluto. La guardai con la mia solita fame vorace e lei come al solito gettò appena un’occhiata sbadata sulla mia sagoma. Era come se guardasse un palo della luce ogni volta che mi vedeva e questo di certo non facilitava le mie operazioni di avvicinamento.
Quella sera però ero determinatissimo a dirle qualcosa.
Mi era scattato qualcosa dentro. Ero troppo incazzato. Era il 25 agosto e a Roma faceva un caldo che spaccava le pietre.
Ero a casa che cercavo un po’ di refrigerio in qualche angolo della casa. Ma non c’era un filo di vento. Ed erano le nove di sera. Continuavo a grondare sudore. Ed ero incazzato come una iena.
Incazzato perché faceva caldo e non me l’aspettavo. In genere, a Roma dal 20 agosto in poi negli ultimi anni l’aria si rinfrescava. Invece quell’anno no. Faceva ancora un caldo maledetto. E casa mia era un forno. Ero stato via dieci giorni e la casa era rimasta chiusa per tutto quel tempo.
Inoltre, le zanzare mi avevano riservato una bella accoglienza. Si erano accanite sulla mia pelle.
Appena avevo aperto le finestre di casa, già avevo un bel bernoccolo sulla coscia destra. E altri si stavano sviluppando piano piano. Lo sentivo dal rumore di questi simpaticissimi insetti che si faceva sempre più acuto nelle mie orecchie. Le sentivo le maledette, ma non le vedevo o quando ne vedevo qualcuna, già si era posata sulla mia pelle, aveva compiuto il suo lavoretto e stava già volando appesantita dal sangue che mi aveva succhiato e pronta a sferrare un nuovo attacco.
Ma non bastava.
Avevo già le palle abbastanza girate di mio, perché da un mesetto la donna mi aveva mollato. E in quel viaggio non avevo battuto chiodo, ammesso che poi fossi dell’umore giusto per combinare qualcosa.
Ma non bastava.
Negli ultimi tre giorni di viaggio  mi ero beccato qualcosa allo stomaco: insomma tre sere prima avevo vomitato pure l’anima e da quel momento in poi  mi ero ridotto a fette biscottate, thè, riso in bianco.
Io, io che se non mi faccio il mio bel cornettino alla marmellata con cappuccino la mattina, se non mi scrofano ogni giorno almeno una bella porzione di pasta ben condita, una bistecca o hamburger a scelta, patatine con maionese, dolcino, gelato o granita che sia non mi sento veramente me stesso, specialmente se sono al momento sprovvisto di una tenera e graziosa fanciulla con cui potermi congiungere carnalmente.
Ma l’avevo preso egualmente con filosofia quella sera.
In fondo pensavo sul taxi che mi riportava a casa, c’è sempre il calcio. Quella sera cominciava il campionato e dalle 6 del pomeriggio fino a mezzanotte mi potevo sbizzarrire tra partite in diretta, commenti, interviste, pagelle, moviole.
Non l’avessi mai pensato.
E non ti capita che nell’era superdigitale, dove puoi acquistare tutto con un messaggino al telefono in un secondo, si va a bloccare tutto il sistema supertecnologico di questi figli di puttana che ci rapinano un sacco di soldi solo perché da quando avevi due anni tuo padre ti ha messo la gazzetta dello sport sotto un braccio, il pallone in un altro e non puoi più fare a meno della tua squadra del cuore come surrogato a questo cazzo di amore con la a maiuscola che poi non arriva mai?
No, quella sera Jole non la poteva passare liscia.
Quella sera ero troppo incazzato: non avevo più la mia fidanzata, che già stava programmando di fare un figlio con un altro, non potevo mangiare, niente calcio e non potevo accettare quest’ulteriore ingiustizia.
Era proprio un’ingiustizia che abitavo da cinque anni in quel palazzo, che da cinque anni mi scapicollavo per arrivare sul balcone o sul cortile, che la veneravo come una principessa e che lei non mi avesse mai degnato non dico di un sorriso o di un saluto, ma almeno di uno sguardo negli occhi.
Credo quindi di poter affermare tranquillamente che nel momento in cui seduto su una sedia del balcone di casa sentii che stava uscendo di casa i miei occhi si iniettarono di sangue e non ebbi nessuna esitazione a fare quel che feci.
Altro che scendere giù per le scale di corsa, rischiando l’infarto. Altro che correre per la casa facendo la corsa a ostacoli, rischiando di cadere dal secondo piano.
No, tutto era molto più semplice.
Bastava sollevare appena il culo dalla sedia, con la birra ancora in mano, così nudo senza niente addosso se non un paio di slip. Senza preoccuparsi neanche di eventuali piccoli ruttini da birra, tanto quello fa uomo.
E poi sporgere appena la testa dal balcone tenendosi ben aggrappati al muretto, senza nessuna possibilità di cadere e dire dall’alto verso il basso con un tono di voce sufficientemente elevato e risoluto, quasi incazzato, quattro lettere: “Jole”.
E le dissi quelle lettere.
E lei sollevò la testa un po’ meravigliata nella mia direzione.
Io risposi sollevando la mano e rivolgendo il palmo verso di lei in un gesto che precedeva quello che stavo per dire
“Aspetta un attimo lì che scendo ti devo dire una cosa”.
Si fermò con le mani sui fianchi, l’espressione del viso più sorpresa che contrariata.
Rientrai in casa, lasciai rotolare sul pavimento la lattina di birra ormai vuota.
In salotto afferrai una maglietta che indossavo da tre giorni e puzzava ormai decisamente tipo gorgonzola.
Mentre aprivo la porta infilai un paio di pantaloncini neri della nike, con un bel buco all’altezza dei genitali e riuscii anche ad inforcare le ciabatte da piscina lerce di polvere che usavo in casa.
Feci le scale con calma, non era il caso di rischiare. Lei ormai era lì che mi aspettava.
Mi sentivo come i giocatori della Juventus quando scendono le scalette che dallo spogliatoio lì porta al campo.
Sentivo pure la folla che stava per applaudire il mio ingresso in campo.
E poi arrivai in cortile.
E lei era ancora lì, con le braccia attaccate al corpo e quel sorriso beffardo sul viso che faceva venire voglia di baciarla a ripetizione su ogni centimetro di quel capolavoro vivente.
Non le lasciai aprire la bocca, la anticipai.
Impostai la voce per sembrare più macho, ma uscì fuori comunque la mia voce neutra da bravo ragazzo studioso “Scusa se ti ho  bloccato in questo modo, ma ecco io sono cinque anni  che sto qui, ci siamo incontrati un sacco di volte e non ci siamo mai parlati. Ti ho anche salutato qualche volta, ma tu hai fatto sempre finta che non esito. So che ti chiami Jole perché c’è scritto sul citofono, sennò mi potrei inventare qualsiasi nome per te. Ma ti sono proprio così antipatico?”
Avevo detto queste cose tutte d’un fiato e dovevo sembrare proprio arrabbiato, perché Jole d’un tratto eliminò il sorriso dal suo volto e mi guardò piuttosto spaventata.
Si passò una mano tra i capelli morbidi.
Erano lisci come la seta, di un castano chiaro che dava l’idea della salute.
Si avvicinò un passo verso di me.
Ecco pensai adesso mi da un calcio nei coglioni, come reazione per allontanare la sua paura, come fanno spesso le donne. E me lo sarei meritato effettivamente.
Invece allungò la mano in avanti come a voler spiegare una cosa evidente
“Be Francesco, ti chiami così vero, ho letto anch’io il tuo nome sul citofono. In questi cinque anni tu non mi hai mai fermato, non ti sei mai presentato. Hai solo biascicato per terra qualche timido saluto qualche volta che ci siamo incontrati. E io non saluto chi non conosco”.
Sul suo viso cominciava a ricomparire di nuovo quel sorriso beffardo che illuminava ancora di più i suoi occhi. Che perle erano quegli occhi: rotondi, grandi, verdi come l’acqua del mare, si muovevano con calma, sicurezza e rapidità allo stesso tempo.
Quando entrarono nell’orbita dei miei occhi alla fine di quella frase, l’erezione fu istantanea e inevitabile.
Feci un passo in avanti e allungai la mano destra imbarazzato
” Va bè, allora io sono Francesco”
“Piacere Jole” disse ridendo di gusto e i miei pantaloncini Nike ormai erano completamente gonfi.
Provai a tirare più giù la maglietta per nascondere meglio le vergogne, ma fu peggio.
Lei guardò lì a posta, mentre continuava a sorridere e a passarsi la mano tra i capelli.
“Ti posso fare una domanda io adesso?”
Eccola adesso mi chiede come facevo sempre a incontrarla in mezzo al cortile mentre esce di casa.
“Si prego” dissi cercando di mostrarmi calmo
“In questi anni ti ho visto sempre calmo, sereno, pacato. Invece oggi sei incazzato nero. Che è successo ti è morto il gatto?”
“Peggio, molto peggio. Ma mi vergogno un po’ a dirlo”
“Non ti preoccupare, non sono poi così tremenda come sembro”
Mi feci coraggio, tanto ormai peggio di così non poteva andare. “Ecco non mi funziona la pay per view e non posso vedere la partita della Juventus questa sera”
“Sei juventino?” disse quasi volendo mettere in dubbio le mie parole.
“Si, perché non si vede?” cercando di portarla anch’io sul gioco, anche se mi stavo innervosendo sempre di più.
“Ma non hai la bandiera sul balcone”
“Neanche tu ce l’hai la bandiera” replicai sempre meno convinto.
“Ma io il balcone non ce l’ho”
“Ah già” dovetti ammettere ” Tu abiti al piano terra.”
Questa ragazza mi intrigava sempre più, però cominciava a starmi anche un po’ sugli zebedei.
Aveva sempre la battuta pronta, aveva sempre ragione lei, mi fregava sempre.
Sarebbe stata dura starci insieme, però era bella da incorniciare e anche da strapazzare più o meno selvaggiamente.
Mentre mi imbambolavo letteralmente sulle sue tette a  pera racchiuse in uno splendido reggiseno di pizzo nero, lei disse come se fosse la cosa più naturale del mondo
“Ma dai che problema c’è, a me funziona la pay per view, puoi venire a vederla da me la partita.”
Provai a uscire dal fuorigioco cioè dalle tette, ma prima di incrociare di nuovo il suo sguardo, vedere il suo naso perfetto coperto da minuscole, artistiche lentiggini rese ancora più urgente la mia voglia di entrare in quella donna e già immaginavo amplessi furiosi accompagnati dai cori dello stadio” forza Francesco facci un goal”
Finalmente riuscii a rientrare in me- poco prima che si spazientisse definitivamente- e  a dire qualcosa.
“A certo si vengo da te”
“Allora dai sbrigati, la partita è tra mezz’ora, io stavo andando a comprare delle birre”.
“Tu ne vuoi una? voglio dire così puoi continuare a inseguire  il record dei rutti, devi solo cambiare il luogo dove lo stabilirai, invece del balcone di casa tua, il soggiorno di casa mia”
Era veramente una scassaballe, però stavo per entrare in casa sua e quindi abbozzai un sorriso falsamente compiaciuto.
“Va bene, vorrà dire che mi premierai tu, a meno che non riesci a battermi”
Mi liquidò in fretta, non dando nessuna soddisfazione alla mia battuta.
“Allora tra mezz’ora da me”
“Ok Jole, grazie a tra poco” dissi con gli occhi ancora più eccitati.
Risalii velocemente a casa.
Dovevo darmi una spidocchiata.
Ero combinato troppo male, non solo per l’abbigliamento.
La barba era lunghissima, i capelli erano pochi, ma per quello non potevo farci molto, a parte rasarmeli a zero.
Mi diedi da fare. Mi sbarbai testa e viso, mi feci una doccia veloce ma accurata.
Mi misi i jeans più fichi che avevo, che però mi andavano strettissimi sopra una Lacoste bianca per far risaltare l’abbronzatura.
Ero dignitoso. Mi mancavano solo le scarpe, ma non riuscivo a trovare gli unici mocassini decenti che possedevo.
Ma ero troppo in ritardo. Alla fine optai per le ciabatte da piscina.
In fondo non era il caso di dare troppo la sensazione del perfettino. La faccia del perfettino ce l’avevo già e non ero per niente sicuro che con una tipa del genere mi avrebbe aiutato a fare colpo fare vedere troppo quanto ero bravo ragazzo.
Scesi con qualche minuto di anticipo.
Suonai, la porta era accostata. Entrai. C’era un profumo di femmina forte, tanto forte che dovetti redarguire pesantemente il mio coso.
Lo capivo, effettivamente era una dura prova per lui, ma doveva riuscire a comportarsi bene. La casa era pulita, ordinata. Il televisore in mezzo al soggiorno era enorme, era il vero padrone di casa.
Mi accomodai con lei sul morbido divano di pelle. Eravamo in posizione ideale per vedere bene la partita.
Ma le gambe di Jole, sode, agili, bianchissime erano troppo belle, fuori come erano dalla mini-mini-minigonna di jeans che aveva indosso.
Mi ci volle molto tempo per concentrarmi sulla tv e sulla partita, quasi metà del primo tempo, ma alla fine ci riuscii.
Jole me lo ordinò con occhiate severe e con i suoi commenti tecnici azzeccatissimi.
Parlammo solo di calcio, tattiche, sostituzioni per tutta la partita, anche nell’intervallo.
Purtroppo finì o a o, neanche un goal per la Juve, neanche un goal annullato per poter abbracciarla nell’euforia dell’esultanza.
Al triplice fischio di chiusura dell’arbitro Jole, delusa dal risultato della partita e sbadigliante dal sonno, mi congedò in modo neanche troppo indiretto.
“Ok domani mi devo svegliare presto per andare a lavorare Buona notte!”
Provai timidamente a offrirle un bacio della buona notte sulla guancia, ma lei si tirò indietro prontamente e mi concesse solo una vigorosa stretta di mano.
Salii in casa e mi misi subito a letto.
Ero tutto un groviglio di emozioni.
Il pisello mi pulsava forte e aritmicamente, mi passavano nella mente le immagini delle sue forme, del suo viso.
Faticai a tenere la mano lontana dal centro vitale di tutti gli uomini, ma ci riuscii.
Mi addormentai in uno stato di ubriachezza da topa, pregando che avessero fatto presto santo il proprietario della pay per view.
Era la prima volta che ero contento per non avere potuto usare un servizio che avevo pagato e se quella era la ricompensa speravo che non la pay per view a casa mia non avrebbe mai più funzionato…

 

La prossima settimana il romanzo riprenderà da dove è stato interrotto. Qualsiasi vostro commento è gradito … a presto.

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