1974, il “sogno americano” della Pfm

Quarant’anni fa il gruppo intraprese una trionfale tournèe e un live in Usa

 

MILANO – La Premiata Forneria Marconi ha rappresentato soprattutto negli anni ’70 uno dei vertici creativi della musica italiana. All’apice del successo, nel 1974, il gruppo intraprese una serie di concerti in Nord America nel tentativo di “sfondare” nel mercato discografico più importante del mondo. Sino a qual momento il gruppo lombardo aveva pubblicato quattro ottimi album molto apprezzati in Italia e in Europa.

Dopo aver registrato nel 1973 “Photos of Ghosts” in Inghilterra grazie all’interessamento di Greg Lake e dopo essere stati apprezzati dal vivo in Gran Bretagna, la Pfm alza il tiro delle ambizioni.

Nel 1974 il gruppo organizza un tour di cinquanta date in Usa e Canada insieme al chitarrista inglese Peter Frampton. La formazione della Pfm era allora composta da Franco Mussida alle chitarre, Mauro Pagani al violino, flauto, ottavino e voce, Flavio Premoli alle tastiere, Patrick Dijvas al basso e Franz Di Cioccio alla batteria. Insieme al Banco, Area e Orme, erano considerati la punta di diamante della “risposta italiana” al rock anglosassone.

La serie dei concerti iniziò da New York nel luglio del 1974. Dal vivo la Pfm era un realtà ben collaudata: i cinque musicisti erano molto affiatati e dotati di padronanza strumentale e tecnica di alto livello. Non avevano nulla da invidiare ai colleghi inglesi e americani. Ecco il ricordo di Franz Di Cioccio: “La prima tournée americana ci diede un grosso riscontro di pubblico. La band funzionava meglio dal vivo che sul disco, probabilmente perché The world became the world , pur avendo un suono perfetto, risultava forse un po’ freddo, un po’ troppo meticoloso. Ma sul palco tutto cambiava e avevamo una grande folla di fans che ci seguiva, soprattutto nella West Coast e particolarmente a Los Angeles, dove puoi suonare ogni sera in un locale diverso senza lasciare mai la città. In quel periodo eravamo “Opening act”, vale a dire il primo gradino della gerarchia dei gruppi nei concerti. Ma pur iniziando quasi sempre a suonare per primi, eravamo uno dei gruppi più apprezzati, tant’è vero che, a differenza di tanti altre band che si sgonfiavano man mano che proseguivano la loro carriera dal vivo, noi tendevamo a crescere e se avevamo dei problemi a trasmettere tutta la nostra energia in studio, sul palco eravamo delle belve scatenate. In effetti eravamo in una splendida forma fisica, che per un rocker è importante quanto per un atleta: sono queste alchimie a farti vincere lo scudetto e noi eravamo tutti, contemporaneamente, in uno dei nostri momenti migliori. Tutto questa animazione, tutto questo interesse da parte dei media e del pubblico piaceva molto agli americani, perché da quelle parti il marketing della musica si basa soprattutto sui tour. Fu così che il nostro manager americano ci consigliò di fare un disco live. A noi non pareva vero: era un sogno che avevamo da sempre, ma in Italia era molto difficile realizzarlo. Così ci facemmo seguire da uno studio mobile e registrammo quattro concerti. Due erano solo di prova, mentre i due successivi, al Central Park di New York e a Toronto, fornirono il materiale per “Cook”, che in Italia si chiamò Live in Usa”.

Show dopo show il pubblico americano apprezzò moltissimo il sound della band italiana. L’entusiasmo cresceva all’interno dei cinque giovani musicisti che erano sempre più consapevoli dell’importanza di “sfruttare” al massimo quel momento di grande consenso internazionale.

Secondo i programmi degli impresari e organizzatori americani della Pfm, il periodo di concerti doveva proseguire per tutto il 1975 sempre insieme all’astro nascente Peter Frampton. Questo periodo era necessario per sfondare definitivamente negli Usa e puntare ai vertici delle classifiche di Billboard.

In prossimità del Natale del 1974 aumentarono le tensioni all’interno della band. Alcuni come Di Cioccio e Dijvas erano ben decisi a continuare l’avventura americana mentre Premoli voleva tornare in Italia. Il 25enne tastierista mal sopportava i ritmi di vita statunitensi (concerti, conferenze stampa, vita negli alberghi). All fine di dicembre il gruppo rischiò anche la scissione. Ancora il ricordo di Franz Di Ciccio sul quel delicato momento: “Il bubbone scoppiò mentre eravamo a New York, nella piscina di un hotel. Mi ricordo che arrivai a minacciare Flavio: “Bene” gli dissi, “allora adesso ti affogo così finalmente rimani qui in America. Non so quanto stessi scherzando. Ci furono musi lunghi per diverso tempo, ma poi prevalse l’unità. Un gruppo ha degli equilibri particolari, che si legano alla necessità di stare insieme: sul palco si va in cinque e bisogna essere d’accordo. Fu così che prevalse il Natale e ce ne tornammo a casa. Quello che non succede adesso succederà dopo ci siamo detti. E ci ripromettemmo di ritornare. In realtà non ho mai rimpianto gran ché quella scelta, perché restare in America significava di fatto diventare americano e tutto sommato non so se ci saremmo integrati bene. 


Comunque, andò come andò, un po’ a caso, come molte delle cose che abbiamo fatto. Eravamo un gruppo di ragazzi. Ci incazzavamo, ci riconciliavamo, suonavamo e facevamo stupidate insieme. Ma quella volta in piscina a Flavio è andata di lusso perché, mentre litigavamo, era in acqua, dove non si tocca. Io non sapevo ancora nuotare bene”.
La sofferta decisione di tornare in Italia pose fine al “sogno americano” del gruppo lombardo. Peter Frampton e la sua band continuarono i concerti per tutto il 1975 e l’anno seguente pubblicò un live che vendette ben 25 milioni di copie in tutto il mondo. Nonostante la musica di Frampton fosse decisamente inferiore a quella della Pfm, il chitarrista inglese si dimostrò più lungimirante e meno provinciale della Pfm che “bruciò” un’occasione unica e incredibile per la loro carriera.

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