Tongasoa eto Madagasikara. Benvenuti in Madagascar

Non avrei mai considerato l’idea di andare in Madagascar, tanto meno per volontariato. La proposta è partita da un’amica, che da sempre sogna l’Africa. Ma il Madagascar non è Africa. Parola di malgascio. Partiamo il 29 giugno con l’associazione Dim.Mi, dove l’acronimo sta per “Dimensione Missionaria”. Gli associati, dediti alla raccolta fondi e alla fornitura di attrezzatura di macchinari per le missioni salesiane, sono per lo più pensionati che hanno aperto la possibilità a noi giovani di osservare un mondo diverso da quello in cui siamo abituati a vivere. E per le prime settimane è stato questo il nostro compito. Osservare.

All’aeroporto di Ivato siamo state accolte dai salesiani della Maison Don Bosco, e per quattro, cinque giorni siamo rimaste lì a guardare la vita di una città, poco distante dal pazzo centro di Antananarivo. Il primo impatto è stato molto forte.
 Si torna indietro di tanti anni e si entra a stretto contatto con la povertà. Case costruite in maniera disordinata, caotica. E dico “case” per modo di dire. Sono stanze, con lo stretto indispensabile per passare la notte e per ripararsi dalla pioggia, quando arriva la sua stagione. I galli, i pulcini e i cani in piena libertà per la strada, così come i bambini, anche i più piccoli, che spesso rincorrono i passanti per avere un soldino. Il mercato è un agglomerato di bancarelle in legno, piene di frutta, verdura, macellerie, “punti di ristoro” e negozi con ogni tipo di oggetti vari. Sembra assurdo vedere banchi pieni di sveglie, televisioni o radio, quando nelle case l’elettricità non esiste. Questa è la dimostrazione del fatto che, della globalizzazione, a questa gente è stato dato il peggio.
In compenso i salesiani hanno creato diversi spazi dove i giovani possono incontrarsi liberamente. Si sono inseriti delicatamente nelle routine quotidiane malgasce. L’aiuto che danno, soprattutto ai giovani, con la costruzione di scuole e oratori, ha posto le basi per poter comunicare e condividere la loro vita.
Durante i primi giorni, facciamo una sorta di “gita” a Ijely, sede di un’altra missione salesiana. Il paesaggio fa un salto di qualità. Immersa fra le montagne e scavata nella terra rossa fuoco, la strada asfaltata si perde all’orizzonte. Ci raccontano che anni fa tutte le alture erano ricoperte di alberi e vegetazione ma, dati i moltissimi incendi e la successiva non curanza di riparare al danno, oggi i fianchi degli altipiani sono vuoti. Per compensare a questa mancanza, i salesiani hanno cominciato a donare i frutti del proprio lavoro, con la promessa che loro piantino gli stessi frutti ricevuti. Tutto piano piano o, alla malgascia, “mora mora”.  

Il 3 luglio lasciamo Ivato. Destinazione Bemaneviky, alla volta della foresta. Lungo tutto il viaggio, i paesaggi più svariati. Partiamo alle 7.30 di mattina e arriviamo alle 22 ad Ambanja, sede del vescovo Don Rosario Saro Vella, che ci accoglie con calore e ospitalità.  

Passiamo dal caos della città con le sue case in mattoni, alle vallate deserte, ai piccoli villaggi di capanne sui versanti dei fiumi. Quando, verso le 18, cala il buio, rimango impressionata dalla gente seduta ai cigli della strada, non curante delle macchine, ma ancora di più mi sorprende l’incredibile quantità di bambini che guidano mandrie di buoi, al buio, per la strada trafficata. Penso al modo in cui noi occidentali teniamo i nostri bambini, come stessero in campane di vetro, sempre con la paura che gli possa succedere qualcosa. E intanto dall’altra parte del mondo, già a dieci anni, un figlio è ricoperto di una responsabilità così grande.

Passiamo la notte ad Ambanja e la mattina riprendiamo la strada per la foresta. L’asfalto sparisce e lascia il posto alla terra rossa. Cominciano i trentacinque chilometri di buche, percorsi in due ore in macchina. La nostra estate corrisponde al loro inverno, cioè al periodo secco. La strada, quindi, è, per così dire, “buona” ma nella stagione delle piogge non è più possibile spostarsi, se non a piedi. Tutto diventa fango. Per quanto lo stato, ogni anno, prometta di risistemare la strada, non c’è mai stata nessuna azione pratica. Ora che siamo qui, invece, e il terreno è asciutto, molti si spostano in bicicletta, in moto, a piedi e molti altri prendono il famoso “taxi bruss”. Dentro questi “camioncini” vengono letteralmente ammassate le persone e sul tetto, invece, valigie, bestiame e chi più ne ha più ne metta. E’ più il tempo che il taxi è fermo per riparare i guasti di quello che ci vuole per raggiungere le varie mete. Ma non ci sono molte alternative e quindi è inevitabile stare ai tempi del mezzo. E proprio sul concetto di tempo, esattamente come viene vissuto da loro, che apro una parentesi.

In termini occidentali, noi intendiamo il tempo come denaro, il denaro detta la legge e quindi non possiamo sprecare nemmeno un minuto. Ne va del nostro guadagno. Inoltre, viviamo il presente con una costante prospettiva futura. A volte il domani diventa più importante dell’oggi.
Qui tutto cambia. Se non arrivi a casa oggi, non importa. Arriverai domani. Non ci sono orari da rispettare. Non si vive l’oggi in funzione del domani. Sono vivo oggi e questo solo ha importanza. Questa cultura, modo di pensare, filosofia di vita, non saprei davvero come chiamarla, ha sia pro che contro. 
Da una parte ogni giorno viene vissuto e apprezzato come potesse essere l’ultimo, e questo si vede bene, in quanto non risparmiano mai un sorriso, un saluto o un aiuto a chi ne ha bisogno. Dall’altra parte, però, la mancanza di progetti a lungo termine li porta a vivere accontentandosi di quello che hanno e che, soprattutto, non hanno. Non c’è un’idea di progresso o, se c’è, è un’idea pigra e difficilmente raggiungibile. Noi possiamo portare la nostra esperienza occidentale ma è in loro che deve nascere il desiderio di un futuro più strutturato. Chiusa parentesi.

La strada che porta a Bemaneviky è piena di villaggi di capanne. La gente guarda noi “vasaha” (“straniero bianco”) prima con sospetto ma ad un sorriso rispondono subito con saluti calorosi. I bambini corrono vicino alla strada dove stiamo passando, gridando a squarciagola “Salut vasaha!”.
La povertà nella foresta è molto diversa da quella della città. E’ meno visibile, forse per la coerenza della vita che conducono. Qui nessuno può morire di fame, per esempio, perché la natura offre frutti in abbondanza e i fiumi pesci. Solo la pigrizia non permette di sopravvivere. Arriviamo finalmente a Bemaneviky e subito ci accompagnano alle nostre camere. Ad ognuna la sua stanza, grande, con bagno interno. Un lusso rispetto a quello che mi avevano raccontato. 


Niente acqua calda, lavatrice, connessione internet e rete cellulare. 
Per una ventenne della mia generazione , questo significa un isolamento totale dal resto del mondo. Non poter chattare in tempo reale su Whatsapp o condividere gioie e dolori su Facebook, non è un’abitudine facile da accantonare. Però devo dire che, personalmente, è stata una liberazione dalla schiavitù del cellulare.
Le due settimane a Bemaneviky sono una sorta di pausa di riflessione dal mondo. Per quanto Don Vladimiro, il prete a cui veniamo affidate, sia molto disponibile e ci faccia vedere molti posti, il fatto di non avere alcun progetto da realizzare alle spalle comincia a pesare. Visitiamo diversi villaggi della Bruss ( cioè della campagna) nel periodo  delle “proclamazioni”, cioè la consegna delle pagelle ai bambini della materna e delle elementari. Arriviamo a piedi, in macchina, in bici e in moto spesso attraversando fiumi o ruscelli e con lo sfondo di paesaggi sempre diversi e di indescrivibile bellezza.
Sia il primo, sia il sabato successivo andiamo alla spiaggia bianca di Ankifi. Ogni domenica, invece, la celebrazione della messa in un diverso villaggio.

Posso dire con certezza che i miei occhi si saziano giornalmente dei paesaggi più belli che abbia mai visto.

Ma il contatto con la gente del luogo è di una difficoltà sostanziale, sia per quanto riguarda i confratelli sia, soprattutto, per i ragazzi.

Pochi i ragazzi che conoscono di italiano, meno ancora quelli che parlano inglese. Già quando vivevo a Londra e capivo poco, avevo compreso l’importanza delle parole e il disagio che crea non capire bene la lingua. Ma la completa ignoranza di ogni singolo vocabolo in un discorso è disarmante. Per quanto io sia una persona estroversa e sempre pronta a mettersi in gioco, sento una sconfitta in questa incomunicabilità. Mi chiudo molto e comincio a sperare che il tempo passi il più velocemente possibile. 
Imparo ad apprezzare le piccole cose, che mi danno le gioie più grandi in questi giorni. Andiamo all’oratorio qualche pomeriggio, per provare un primo approccio coi ragazzi che si ritrovano lì tutti i giorni a giocare. Come primo tentativo, mi avvicino al campo di pallavolo dove giocano due ragazze, gli faccio segno se mi posso unire a loro e mi accolgono con un grande sorriso. Subito altri ragazzi si aggiungono e con naturalezza si formano due squadre da sei giocatori ciascuno. Qualche risata per il punto perso e per quello conquistato, un paio di parole per dire “dentro” (“anatiny”) e “fuori” (“ivelany”) e in tre ore la mia giornata acquista un senso, uno scopo. Ogni giorno mi costringo un po’ controvoglia ad andare al campetto di pallavolo, sapendo che comunque ottengo molto poco. Ed ogni giorno, proprio grazie a quelle poche ore passate insieme, questi bambini, senza rendersene conto, mi danno un senso di realizzazione e di felicità. 

Ad Ambanja, dove andiamo settimanalmente per comprare frutta e verdura, conosciamo alcune ragazze italiane che fanno parte di un OGN. Un weekend ci invitano ad andare con loro a Nosy Komba e subito cogliamo l’occasione per prenderci una vacanza dalla foresta. Arriviamo al punto di fare cinquanta chilometri in bicicletta da sole per la foresta, pur di evadere per un po’. 

Passiamo quattro giorni a Nosy Komba, in un piccolo hotel frontemare. Niente di lussuoso e sfarzoso. Posso assicurare che non è necessario.

Tutti i giorni mangiamo il pesce. Facciamo l’ordinazione il giorno prima e il giorno seguente è tutto pronto. Finalmente conosciamo persone con cui poter parlare, turisti in viaggio dalla Reunion, medici italiani volontari, ragazzi dell’isola che ci danno ottimi consigli. E’ bello condividere finalmente un po’ della propria vita con persone che fanno lo stesso con noi.


Dopo quattro giorni passati in questo angolo di paradiso, decidiamo di terminare la settimana a Nosy Be, in un hotel molto accogliente, a cinquanta metri dalla spiaggia più bella dell’isola, Andilana. Dalla semplicità di Nosy Komba alla turistica Nosy Be, il passaggio è stato brusco. L’aria che si respira qui non ha niente a che fare con il Madagascar. E’ difficile godersi un momento di pace distesi sulla spiaggia (che è davvero molto bella) perché i ragazzi del luogo ti riempiono la testa di escursioni da fare, posti da visitare, cene da prenotare.

Una sera, con la fortuna di riuscire ad incontrare la cugina del mio fidanzato, Luisa, e suo marito, Paolo, che vivono a Nosy Be da molti anni, andiamo a mangiare nella zona “in” di Nosy Be, Ambotoalaka. Ceniamo in piena atmosfera livornese nel ristorante dei genitori di Paolo. Una serata splendida. E’ come tornare per qualche ora in Italia.

Tuttavia, nonostante la loro splendida accoglienza e gentilezza, non posso far a meno di notare la quantità di prostitute e di anziani che le accompagnano. Dopo aver visto questo, non riesco più ad apprezzare Nosy Be.

Torniamo ad Ambanja e riceviamo una splendida proposta. Andare a Mahajanga, quarta città per grandezza del Madagascar, affacciata sulla costa ovest del Madagascar. Partecipare all’animazione coi ragazzi, organizzata dai ragazzi del luogo e da alcune ragazze italiane, dell’associazione “Mondialità”. Accettiamo immediatamente.
Dal momento in cui arriviamo ad Antanimasaja, sede della missione salesiana, poco distante dal centro di Mahajanga, finisce il tempo dell’osservazione. Comincio a sentire il Madagascar.
La prima settimana è la settimana di formazione per gli animatori malgasci, cioè si preparano ad accogliere i bambini della proposta estate nel migliore dei modi. Durante queste giornate, noi e le ragazze di Mondialità, con cui stringiamo subito un ottimo rapporto, ascoltiamo (ovviamente senza capire niente) ma soprattutto facciamo capire che noi ci siamo, che se hanno bisogno, in qualche modo, possiamo dargli una mano.

Gli animatori sono circa un centinaio di ragazzi dai sedici ai venticinque anni. Con grande sorpresa, scopro una nuova realtà malgascia. L’affetto e il calore della gente della costa. La loro fisicità, negli abbracci, nel continuo coinvolgimento entusiastico, nel ballo, è stato un balsamo per il cuore. Non ho mai visto tanta spontaneità, apertura e semplicità.
A differenze delle interminabili ore nella foresta, ad aspettare che il tempo passasse, qui a Mahajanga la prima settimana vola via. L’atmosfera di festa che c’è anche nella casa salesiana, scaccia il ricordo dei silenziosi pasti della foresta. Risate e chiacchierate da un lato all’altro del tavolo.

Faccio una premessa, prima di raccontare la prima settimana della proposta estate. Io non ho mai partecipato all’oratorio da piccola, non ho mai fatto colonie o proposte estate, non sono mai stata una scout o quant’altro. Quindi, non so come comportarmi, quale sia il modo giusto di porsi coi bambini, come prenderli, cosa fare e cosa non. Ma un episodio mette definitivamente fine alle mie preoccupazioni.
L’oratorio è aperto nel weekend, per far giocare tutti quei bambini che non possono permettersi di pagare la proposta estate. Arrivo impaurita al cancello, entro e una bambina mi corre incontro. Mi sorride, come se non ci vedessimo da tanto tempo, e mi salta in braccio. Da quel momento non c’è bambino, né animatore che mi faccia sentire inadeguata. Anzi, sono proprio i bambini a guidarmi nei giochi. E anche per le cose più semplici, si entusiasmano e ti regalano abbracci, baci e sorrisi.

Primo giorno di proposta estate (in malgascio, Fy). Mille bambini. Insieme agli animatori, mettiamo in pratica tutto quello che abbiamo imparato la settimana prima: balletti, gestione dei conflitti, esposizione di temi di catechismo e quant’altro. Il tutto alla maniera malgascia. Spontaneità, niente schemi impostati, niente critiche sugli errori, ma costante supporto reciproco.

Con una rapidità sorprendente, finisce anche la seconda settimana. Tutte le giornate terminano tra la fatica fisica, la gratitudine e un senso di gioia inspiegabile che ti cullano durante la notte. Vado a dormire con la voglia che il giorno seguente arrivi presto.
Il giorno prima della nostra partenza, un animatore mi invita a casa sua. Accetto volentieri. In questi giorni avevo camminato solo per la strada principale, mi sorprende vedere David entrare in una parallela più stretta della più stretta delle calli veneziane. Il sentiero è buio, non c’è più l’asfalto, ma terra battuta. David ci conduce al suo “quartiere”. Ad un certo punto, tutto contento, annuncia “La maison!” e ci fa entrare. La capanna è tutta in lamiera, il caldo è soffocante. Ci sono due letti, uno per lui e uno per suo padre, che è sdraiato sul letto a causa di un piede monco. Sono solo loro due, perché la mamma è morta l’anno scorso. Ora è David che si occupa di tutte le faccende domestiche e nel frattempo sta studiando per terminare gli studi. Mentre, con poche parole in italiano mi racconta tutto questo, sento un enorme peso al cuore di tenerezza nei suoi confronti e, insieme, un’ammirazione incredibile per un ragazzo che, nonostante tutto, continua ogni giorno a sorridere e a rendersi disponibile a tutti, volontariamente. Guardiamo insieme l’album di famiglia, gli regalo una mia sciarpa e dò un po’ di caramelle a suo padre, che le prende con grande riconoscenza. Mi porta anche a conoscere sua sorella, che è sposata e ha tre bambini, e poi torniamo all’oratorio.

Arriva il momento dei saluti. Ci sediamo, come gli altri giorni, al campetto da basket, al tramonto. Cantiamo qualche canzone con la chitarra. I ragazzi ci cantano una loro canzone, “veloma”, che vuol dire “addio, arrivederci”. Li lascio con un senso di tristezza ma anche con la voglia di tornare a casa. Voglio cercare di trasmettere almeno un po’ di tutto quello che ho ricevuto.

Come ho detto, non è stato tutto facile. Anzi. Un mese e mezzo è passato, a volte, con tempi interminabili, a volte, troppo rapidamente. Ma è alla fine di tutto che mi accorgo di portare dentro una maturità nuova, una realtà nuova. Ed è purtroppo molto più quello che ho ricevuto rispetto a quello che avrei voluto dare. Spero, però, di aver dato qualcosa a chi legge questo articolo. Fosse anche solo un sorriso, ne sarei felice.

 

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