Sex in the city … a Roma … ad agosto. Un romanzo di Francesco Costanzo

VIII, IX e X capitolo dove si vedrà il nostro Francesco soffrire le pene d’amore per  Jole

VIII
Lo sapevo che mi avrebbe fatto il culo il mio capo quella mattina. Sapevo che conosceva tutti e riusciva ad avere informazioni da tutti, quindi anche dal medico fiscale.
E me l’avrebbe fatta pagare cara, ma con stile.
Niente rimproveri, niente urla, qualcosa di più sottile, di più sopraffine.
Non mi sbagliavo.
Quel giorno mi invitò a pranzare con lui. Quando mi invitava a pranzo, non potevo rifiutare. La gerarchia era sentitissima nel nostro negozio.
Ci chiamavamo tutti per nome, ci davamo tutti del tu.
Ma se un superiore ti chiedeva di pranzare con lui o di prendere un caffè, non potevi rifiutare. L’avrebbero saputo tutti e tutti mi avrebbero accusato di alto tradimento.
Sapevo già cosa significava quell’invito a pranzo. Mi aveva invitato solo due volte in due anni.
Quindi era evidente che era al corrente di tutta la situazione del giorno prima con il medico fiscale.
Voleva controllare cosa avrei mangiato. A lui non importava in realtà che avessi simulato la malattia, ma non poteva accettare che mi fossi fatto beccare.
Un suo dipendente che si fa beccare! Non è possibile:lui il più scaltro dei furbi non poteva accettare di avere dipendenti fessi.
E dovevo pagarla.
Non  poteva infliggermi punizione peggiore.
Il cibo per me è come una droga e alla mensa del negozio si mangia benissimo.
E poi ero single e quindi cercavo di rimpinzarmi il più possibile a mensa, così la sera non avrei dovuto cucinare e magari me la cavavo con qualche biscotto e un bicchiere di latte.
Andai a bussare alla sua porta ormai rassegnato ad accettare il mio destino.
Mi accolse a braccia aperte con il suo solito sorriso fintissimo a trentadue denti.
”Che dici? Tutto a posto? Ti sei ripreso?!
“Più o meno” dissi cercando di non farmi prendere per il culo in modo totale.
“Allora che ci spariamo oggi, la lasagna? E poi mi sa che oggi fanno pure l’abbacchio”
Era partito all’attacco. Non gli diedi soddisfazione. Abbassai il capo in segno di resa. E lui aggiunse” A già dimenticavo tu hai il mal di stomaco e non puoi mangiare sta roba. Mi sa che devi mangiarti riso in bianco e petto di pollo”
Ormai ero decisamente alle corde. Accennai un sorriso di resa e lui mi diede una robusta pacca sulle spalle.
Non si fece mancare niente. Lasagne, abbacchio, tiramisù, frutta e vino.
Mangiò con gusto e ogni volta che portava alla bocca la forchetta la avvicinava sempre il più possibile al mio viso in modo che potessi annusare quello che mi stavo perdendo.
Ogni tanto mi esortava a mangiare con più convinzione “Dai che se non mangi tutto, non guarisci. Lo so non è un granché, ma stai male, mica vorrai vomitare di nuovo”
Tra un boccone e un altro mi parlava del Milan, 4-4-2, Ronaldinho, il Presidente Berlusconi. Ero al limite della sopportazione.
Finì di mangiare, io invece ancora ero a metà del riso. Ma non si muoveva. Voleva che finissi di mangiare e continuava a parlare del Milan.
Aumentai il ritmo, ingurgitai velocemente sia il riso che il pollo.
Ci alzammo dal tavolo, camminai dietro a lui.
C’era il mio collega-commesso e amico Roberto. Forse potevo ancora risolvere la situazione.
Mi guardò. Mise rapidamente in una cartellina un pezzo di lasagna avvolto in un tovagliolo di carta e me lo passò. Afferrai al volo la cartellina e la misi dentro la mia. Il mio capo non si era accorto di nulla. Avevamo fatto io e Roberto un bel lavoro, tipo un cambio di gomme in pochi secondi in una gara di formula uno.
Affiancai il mio capo. Mi guardò negli occhi. Aveva percepito qualcosa, ma lo avevo fregato.
Cercai di riportalo sui suoi pensieri
“Certo però un quinto attaccante il Milan lo deve comprare, non può fare tutte le competizioni con quattro attaccanti”.
Mi sorrise soddisfatto con gli occhi che continuavano a scrutarmi, cercando di capire cosa gli stavo nascondendo.
Infine si convinse. Si convinse che avevo imparato la lezione e che non avrei più provato a infangare la sua reputazione con altre figure come quella che avevo fatto con il medico fiscale.
Tutto sommato mi era andata bene.

IX

La sera a casa mi rifeci abbondantemente.
Passai, rientrando dal lavoro dalla “Rustichella”, la mia trattoria preferita.
Mi feci preparare delle zite al forno e una porzione abbondante di abbacchio al forno con le patate. Il vino rosso ce l’avevo a casa.
Appena rincasato andai a cercare il preludio Raindrop di Chopin e accesi lo stereo. Mi sembrava la musica più adeguata ad esprimere i miei sentimenti per Jole.
Aprii la finestra del balcone, in modo che la musica dal balcone potesse diffondersi per il cortile e arrivare alle orecchie di Jole. Le zanzare avrebbero fatto festa nuovamente, ma non mi importava.
Mi svestii con la solita fretta. La cravatta che dovevo indossare ogni giorno per obbligo aziendale la sentivo come un cappio al collo, soprattutto d’estate.
Sentii i suoi passi giù nel cortile, ma non ebbi il tempo di affacciarmi. Eppure ero sicuro fosse lei.
Dovevo fare qualcosa. Non potevo aspettare che passasse troppo tempo rispetto al giorno dello svenimento.
La situazione era ancora recuperabile, ma non mi veniva in mente niente.
Mentre gustavo l’ultima patata e buttavo giù l’ultimo bicchiere di vino, decisi che era meglio buttarsi sul tradizionale.
Avrei comprato delle rose rosse per la mia bella, come facevano tutti. E d’altronde non vedevo il motivo per il quale dovessi inventare un metodo nuovo, visto che quello delle rose spesso funzionava, almeno agli altri.
Infilai una tuta e mi diressi verso il fioraio che si trovava a pochi isolati da casa mia.
Era sempre aperto, anche la domenica, a tutte le ore. I fiori non erano proprio bellissimi, ma quello che contava in fondo era il pensiero.
Qualche anno prima avevo comprato lì un mazzo di rose per una ragazza che lavorava ad una gelateria e che finiva di lavorare tra mezzanotte e le due di notte.
Ero stato ad aspettarla davanti alla gelateria fino alle due abbondanti, le avevo consegnato i fiori e lei aveva cestinati direttamente.
Quindi se i precedenti contavano qualcosa, non avevo molte speranze.
Magari questa volta il cestinamento non sarebbe avvenuto immediatamente e davanti ai  miei occhi. Sarebbe stato già un buon risultato e comunque valeva la pena tentare.
Il fioraio cercò di rifilarmi le rose più brutte che aveva. Ma io ormai una certa esperienza ce l’avevo. Ne avevo regalate tante di rose anche all’ultima donna con sui stavo.
Non mi faci gabbare. Il prezzo fu anche ragionevole. Sul bigliettino scrissi “sono un’idiota…perdono! Francesco”.
Sulla strada del ritorno a casa riflettevo sulle modalità di consegna.
Avevo scartato la consegna diretta da parte del fioraio. Era troppo banale e anche da codardo.
Ci dovevo mettere la faccia io.
Ma forse non era il caso di suonare alla sua porta, visto che mi aveva bandito in modo abbastanza perentorio l’avvicinamento a casa sua.
Avrei potuto lasciarglieli appoggiati alla porta di casa, ma mi sarei comunque avvicinato a casa e sua avrei contravvenuto ai suoi ordini.
Non era il caso di far aumentare la sua collera. E poi si sarebbe potuta spaventare se avesse visto dalla finestra avvicinarsi di sera una sagoma non identificabile. E magari se aveva un bel fucile a pallini, mi poteva fare passare del tutto la voglia di avvicinarmi a casa sua.
Aprii il portone e decisi per il momento di portare i fiori in casa.
Se fosse uscita quella sera, magari potevo applicare ancora una volta il piano b, che ormai era collaudato.
Mi stesi sul divano, lasciando la porta della camera da letto aperta, in modo da poter passare all’azione all’occorrenza.
Guardai un documentario sui pinguini.
Le femmine di pinguino dopo essersi accoppiate con i maschi ritornavano in mare per l’inverno, mentre i maschi covavono le uova sul ghiaccio a meno sessanta gradi. Poi, finito l’inverno e dissoltosi il ghiaccio le femmine tornavano dai rispettivi maschi.
E si vedeva la scena in televisione di queste pinguine femmine che andavano ognuna a riabbracciare il proprio fidanzato con rispettiva prole.
Ma erano tutti uguali, gemelli, precisi, precisi, pinguini e pinguine, anche nell’altezza. Come cazzo faceva la femmina a ricordarsi qual’era il proprio uomo? Mi sa che i pinguini sono una grande famiglia allargata, tutti fratelli e sorelle che si riproducono in continuazione.
Mentre formulavo questo ragionamento di alta scienza, udii che stava uscendo.
Dovevo andare. Certo se stava passando a prenderla un uomo, sarebbero stati dolori, dolori veri.
Ma avrei trovato una soluzione al momento.
Stabilii un vero record questa volta. In cinque secondi netti ero già al centro del cortile col mazzo di rose in mano.
Lei era splendida, truccata come una modella che andava ad una festa o forse all’appuntamento con Richard Gere.
Aggrottò le sopracciglia appena vide le rose.
Gliele porsi senza dire niente. Sorrisi timidamente, lei freddamente.
Aprì il cancello. La seguii. Una golf grigia l’aspettava davanti al portone del palazzo col motore acceso.
Se dentro c’era un uomo, era la fine.
Ma non volevo fare la figura del cacasotto e volevo vedere se per caso avrebbe girato la testa per guardarmi mentre la macchina si allontanava.
Sui manuali di tecniche di seduzione avevo letto che se una donna quando se ne va, si gira, vuol dire che ci sta. Finora poche volte le donne si erano girate quando ci eravamo salutati. Molte di queste volte era successo per merito della mia ex.
Aprì la portiera della golf. Allungai lo sguardo verso il posto di guida dalla mia posizione di “giovane Werther in attesa sul marciapiede”.
Alla guida c’era una donna. Stessa età di Jole più o meno, ma molto  volgare e poco carina.
Guardò Jole entrare in macchina e lanciò uno sguardo schifato alle rose.
Poi esclamò tutto d’un  fiato e a tutto volume  “Mò pure le rose!”.
Mi sentii coperto dalla vergogna. Ma non potevo andarmene prima che la macchina ripartisse. Ormai avevo affrontato tutta la situazione, dovevo andare fino in fondo.
La macchina partì con una sonora sgommata.
Fece cinque metri quasi volando, poi inchiodò repentinamente al semaforo rosso.
Erano ancora nel mio campo visivo. Si sarebbe ancora potuta voltare e io l’avrei vista.
Passò un minuto. Il semaforo diventò verde.
La macchina partì come alla partenza di una gara di formula uno, facendomi arrivare addosso notevoli quantità dei gas scaricati dalla marmitta.
Chiusi appena gli occhi per ripararmi da quella piccola Seveso. Li riaprii giusto in tempo per vedere Jole che girava la testa e mi guardava con un sorriso pieno e disteso.

X
Forse era meglio così. Almeno non ci avrei pensato per un po’ a Jole e avrei potuto studiare meglio le mie mosse: Non avrebbe sentito il mio fiato sul collo e sarebbe stata più clemente.
Però questa volta non sapevo proprio come riuscire a venire a capo della situazione con Gilberto.
Stavolta non era facile esaudire i suoi desideri o meglio era troppo pericoloso farlo.
Mi svegliò come al solito all’alba o giù di lì. Saranno state le 7, al massimo le 8 del mattino.
A quell’ora mi chiamava solo lui.
I miei genitori ormai erano disciplinatissimi da quel punto di vista. Li avevo catechizzati così bene che non si azzardavano mai a chiamarmi   prima dell’ora di pranzo.
Per fortuna ormai lo sapevo che il sabato correvo quel rischio e mettevo sempre il ricevitore del telefono sul comodino accanto al letto.
Avrei potuto staccarlo il telefono, ma non me la sentivo.
Non se lo meritava Gilberto. Grazie  a lui avevo conosciuto la mia ultima fidanzata e gliene ero riconoscente, anche se mi buttava giù dal letto un sabato si e uno non per pormi i suoi quesiti a dir poco originali.
Una volta si era innamorato alla follia di una ragazza colombiana che gli si era concessa carnalmente dietro pagamento di qualche decina di euro e poi era sparita nel nulla. L’aveva cercata dovunque,  perfino all’ambasciata colombiana in Italia, ma non era riuscito a cavare un ragno da un buco. Tutto quello che gli rimaneva di lei era il suo numero di cellulare, che però, nonostante Gilberto provasse e riprovasse, era sempre irraggiungibile. Si era convinto che se fosse riuscito a risalire alla persona intestataria del telefonino avrebbe scoperto il posto dove poter raggiungere la sua fiamma. Non gli veniva il dubbio che era abbastanza improbabile che la signorina in questione fosse interessata più al suo cuore che al suo denaro. In tutti i modi voleva scoprire a chi fosse intestato il telefonino e riuscì anche a trovare una persona alla compagnia telefonica disposta a commettere l’illecito dietro pagamento di 500 euro. Solo dopo vari tentativi e dopo averlo messo brutalmente di fronte alla realtà lo convinsi che era meglio aggiungere altri 200 euro e farsi un weekend a Budapest.
Un’altra volta si era innamorato di una campionessa di judo italiano che dopo la vittoria di una medaglia di bronzo alle olimpiadi lo aveva affascinato con il suo sorriso attraverso il televisore.
Quella volta grazie ad alcuni amici al Coni riuscii a metterlo in contatto con l’atleta via email e lui addirittura era andato a trovarla nelle marche, riuscendo anche a strapparle un bacio.
Ma questa volta la faccenda era seria.
Alzai il ricevitore dopo due squilli.
“Ciao Gilberto? Che è successo?”
“A Francesco scusami ma è accaduta una cosa molto brutta”
“Che è successo?”
“Due giorni fa ero in macchina vicino a villa Pamphili, sai dove c’è la curva prima del semaforo”
“ Si e allora”
“Niente, mentre faccio la curva mi si affianca una macchina e mi stringe, a momento ci tocchiamo”
E che hai fatto?
“ Sono sceso dalla macchina e anche quel tizio è sceso dalla macchina”
“E allora?”
“Gli ho detto che è un maleducato, che mi ha tagliato la strada e che ci mancava poco che ci scontravamo. E questo mi ha dato una testata.”
“Ti ha fatto male?”
“No, mi ha preso solo di striscio. Ma lo voglio denunciare”
“Ma non ti ha fatto niente e se lo denunci rischi che poi, visto che soggetto è ti viene a cercare e stavolta ti fa male sul serio”
“Si, ma allora voglio che almeno mi chieda scusa”
“Ma non sai manco come sia chiama, avrai preso il numero di targa e questo non basta per risalire alla persona” dissi per prendere tempo
“In realtà grazie a un mio amico all’ACI ho scoperto chi è e dove abita”
“Magari non è lui il proprietario dell’auto” dissi cercando di farlo desistere. Ma non ne voleva sapere
“Posso andare all’indirizzo suonare e vedere se è lui”
“Si magari visto che ci sei cerca pure il numero di telefono sulle pagine bianche così lo chiami e gli dici di affilare il coltello. Gilberto ma ti rendi conto dell’assurdità della cosa?”
“ Si lo so, ma io vado lì sotto casa sua e gli citofono. Se vuoi accompagnarmi bene, sennò ci vado da solo”
La situazione era grave. Si era fissato e ormai non c’era modo di farlo recedere.
Cercai di limitare i danni.
“Magari invece di andare lì a casa sua e citofonare potremmo provare a mettergli una lettera nella cassetta della posta. E nella lettera gli dici che vuoi che ti chieda scusa sennò lo denunci. Lascia fare a me, butto giù la lettera, tu vieni  qui a casa mia da me tra un’ora e andiamo insieme a imbucare la lettera”
Accettò fortunatamente. Non avevo ottenuto moltissimo in realtà. Già andare in quel quartiere si rischiava molto, ma almeno non saremmo andati all’harakiri totale.
Buttai giù qualcosa che potesse dargli soddisfazione, ma che non lo esponesse troppo alle rappresaglie del teppistello che aveva osato essere così maleducato con lui.
Poteva andare.
Infilai una tuta , andai in cucina.
Mi era finito il caffè, mi era rimasto solo il decaffeinato che usava la mia ex.
Dovetti bermi quell’intruglio, ma mi sentivo ancora parecchio addormentato.
Senza caffè l’unico rimedio era lo doccia fredda per svegliarmi. Per fortuna era ancora caldo e me la potei permettere senza grossi sacrifici.
Impiegai l’altra mezz’ora a disposizione per navigare un po’ su internet e vedere se per caso qualche amica aveva risposto alle mie mail.
Naturalmente non mi aveva scritto nessuna.
Il rombo del motore  della cinquecento di Gilberto mi riportò bruscamente alla realtà.
Quella macchina sembrava uscita da una delle sorprese di un uovo di pasqua per quanto era piccola e buffa, ma ruggiva proprio come una Ferrari.
Il pilota strombazzò col clacson due volte. Mi affacciai alla finestra. Era lì Gilberto, sotto casa mia, dentro l’abitacolo della sua buffa auto, con le sue dita a salsicciotto e la sua faccia da cane san bernardo, cornice di un corpo tozzo tipo cavernicolo dei cartoni animati. Mi aspettava paziente, Gilberto, placido e beato come al solito e pronto ad affrontare un’altra delle sue importanti e strampalate avventure con quel mix di incazzatura e di calma, che non riuscivi mai a capire se era vero o se davvero era un personaggio uscito da un cartone animato.
Gli avresti voluto dire “Ma che sorridi? Che mi metti sempre in mezzo a questi guai? Perché non te ne vai a lavorare? Invece di rimanere  fuori corso all’università con tre esami da fare da un vita?”
Ma poi quell’espressione bonaria, quell’ingenuità, quella mancanza totale e fiera del senso del ridicolo che albergavano in lui ti convincevano a fare esattamente quel che voleva lui.
Gli feci segno che sarei sceso subito.
Mi accolse col solito sorriso pacioso.
Partimmo per la nostra difficile missione. Gli lessi la lettera sulle note del va pensiero, che ormai Gilberto aveva adottato come suo inno ufficiale, prima ancora che lo facesse lo Stato italiano.
Me l’aveva regalato in tutte le salse il suo inno ufficiale: prima per un compleanno un cd, poi un dvd musicale, infine l’ultimo natale anche un mp3 con questa musica sparata a ripetizione per più di un’ora.
“E’ la musica più gioiosa che esiste, rilassa, rende pacifici” mi diceva sempre
Non aveva torto. Speravo che non gli fosse venuto in mente di allegare alla lettera anche un cd con il va pensiero per il delinquente che stavamo andando a trovare.
Non credo che avrebbe gradito l’omaggio musicale.
Effettivamente mi accorsi che sul lunotto dell’auto c’era un cd e nella sua macchina non c’erano mai cd, perché l’unico che ascoltava era sempre inserito nello stereo e la custodia non l’avevo mai vista.
Forse era saltata fuori dal bagaglio o da qualche altro posto. Me lo augurai vivamente.
Fu soddisfatto della lettera, anche se volle aggiungere a tutti i costi una frase in cui chiedeva al malvivente che doveva chiedere scusa al telefono non solo a lui ma anche alla madre,in quanto nel corso del diverbio era stata tirata in causa anche lei in quanto presunta prostituta.
Accettai la modifica, anche perché questa ulteriore richiesta non avrebbe aggravato più di tanto il massacro che immaginavo si sarebbe scatenato dopo che la missiva sarebbe stata letta. E inoltre non fece cenno al fatto di allegare il “va pensiero”.
Arrivammo a destinazione. Scendemmo dalla macchina in corrispondenza dell’indirizzo del malvivente, proprio lì davanti
Ero piuttosto testo. Ci guardavano tutti. Per fortuna nessuno era interessato alla macchina, ovviamente. Ma eravamo chiaramente due alieni in un territorio nemico, vestiti in modo troppo elegante per il luogo. Entro cinque minuti se non fossimo andati  via, avremmo avuto sicuramente decine di coltelli vicino alla gola. E ciò che era grave era che in realtà non avevamo molto contante con noi e quindi ancora meno meritevoli di essere esentati dalla coltellata.
Dissi a Gilberto di aspettarmi vicino alla macchina, non dentro la macchina col motore acceso; avremmo troppo l’idea di essere due pesci fuor d’acqua che scalpitavano per rituffarsi  di nuovo in acqua.
Mi avvicinai al portone. Se non era aperto avrei dovuto suonare a qualcuno spacciandomi per il postino. Per fortuna non servì. Una donna di mezz’età, aprì il portone e io  mi infilai dietro di lei. Non se ne accorse neanche.
Andai alla cassetta della posta, mi tremavano le mani e il sudore mi colava dal viso in modo pazzesco. Se quel tizio fosse sceso mentre imbucavo la lettera, non avevo scampo. E il guaio era che non sapevo come fosse fatto quel tizio.
Andai dritto al mio obiettivo, infilai la lettera nella buca e mi avviai verso il portone.
Ce l’avevo fatta, non mi aveva visto nessuno, pensavo.
Invece mentre stavo per aprire il portone con calma per tornare alla macchina da Gilberto, sentii accanto a me una furia che calpestava il terreno e apriva il portone. Riuscii a tenere fermo il portone e a uscire dietro quel pazzo scatenato, che si avviava proprio verso Gilberto apostrofandolo con espliciti riferimenti alla madre e puntando dritto con un coltello verso di lui.
Era la fine. Evidentemente il maleducato aveva visto Gilberto affacciandosi dalla finestra e non sapeva neanche cosa stavo facendo io dentro il suo palazzo né che fossi con lui. Poteva essere una fortuna per me.
Cinque metri separavano Gilberto dalla lama del coltello ed era troppo distante dalla macchina per poterci salire in tempo a mettersi in salvo.
Era terrorizzato Gilberto, guardava  me e la lama contemporaneamente.
Lo guardavo anche io e d’istinto stavo per chiudere gli occhi, quando un rumore metallico deciso tenne le mie pupille ben spalancate.
Lo avevano arrestato. Due poliziotti si erano avventati su di lui prima che potesse sfogarsi su Gilberto. Arrestato e ammanettato. Così in un secondo, un poliziotto aveva bloccato un braccio, un altro ne aveva bloccato un altro.
E poi sentì solo il delinquente che urlava “M’ha fregato sto frocio, m’ha fatto arrestare, sto grandissimo figlio di..”
E Gilberto che diceva in tono calmo” Ma io non sapevo che c’erano i poliziotti, ero venuto qui solo per farmi chiedere scusa da te per quell’incidente. Vero , Francesco, diglielo!”
Non ci tenevo in modo particolare a essere riconosciuto da quel tipo e così rifilai un vigoroso scappellotto sul collo a Gilberto per farlo tacere.
Si zittì. Avevo bisogno di stendermi un attimo. Strappai le chiavi della macchina a Gilberto e mi sistemai sul sedile davanti, inclinandolo tutto indietro.
Gilberto fece lo stesso. Non parlava. Si era cacato sotto pure lui.
Avremmo dovuto andare via subito da lì. Ma c’era la macchina della polizia e per qualche minuto saremmo stati al sicuro.
Dopo qualche minuto sollevai la testa per guardare fuori dal finestrino.
C’era Jole. Avanzava verso la macchina. Era bellissima come al solito, un filo di trucco e delle bellissime scarpe di ginnastica rosse.
Sorrideva, ma sembrava piuttosto sorpresa.
Uscii dalla macchina di scatto e lei andai incontro.
“Che ci fai tu qui?”
“Potrei farti la stessa domanda” dissi grattandomi un po’ la pelata e guardandole le scarpe. Erano bellissime facevano perfetto pendant con le unghie smaltate dello stesso colore.
“Io sono qui perché mio fratello che è uno dei poliziotti che ha fatto l’arresto mi aveva detto che era qui di pattuglia e che mi voleva dare una cosa da parte di mia madre. E tu che fai vieni a farti accoltellare qui  per sport o ci credi veramente?”
”No ma è una storia lunga..” dissi imbarazzato non sapendo come cominciare a raccontare la vicenda e avendo già ben chiaro nella mia mente che dopo il mio racconto Jole mi avrebbe tolto definitivamente il saluto.
Suo fratello mi tolse dall’impaccio.
“Grazie ragazzi. Io non so cosa gli avete fatto a quello. Però grazie a voi abbiamo preso quel tipo, che è un vero boss di questo quartiere, ma che non riusciamo mai ad arrestare, perchè non si fa mai beccare sul fatto. Invece questa volta si è fatto fregare come un pivello. Ma vedo che vi conoscete con mia sorella”
“Si” disse Jole un po’ infastidita dalla vicenda, ma propensa a perdonarmi “Lui abita nel mio palazzo, mentre lui non l’ho mai visto”.
“Ok, ragazzi, però purtroppo vi devo chiedere di seguirmi in caserma per spiegarmi cosa è successo e perché quel tizio ce l’aveva con voi”
Era molto imbarazzante dover raccontare quella storia. Forse sarebbe stato più onorevole farsi arrestare, dicendo che il tizio ce l’aveva con noi perché  gli avevamo fregato una parte dei soldi derivanti dalla vendita della cocaina che avevamo spacciato per suo conto.
Ma alla fine prevalse in me la voglia di libertà. E potemmo andarcene dalla caserma.
Clelai mi offrì un passaggio a casa. Accettai. Salutai Gilberto che continuava a chiedermi scusa per quello che era successo.
Non avrei dovuto scusarlo, ma invece lo feci. E gli dissi che ci saremmo visti come al solito per la partita di calcetto il giorno dopo.
Jole sembrò adesso divertita di tutta la storia.
Guidava sicura, fumando una sigaretta con una mano e tenendo il volante con  l’altra.
“Certo sei proprio un incosciente, ma come ti è venuta in mente una cosa simile?”
“Ma sai voglio bene a Gilberto, lui era così determinato a parlare con quel tizio e così pensavo che con la lettera avremmo almeno rimandato il bagno di sangue. Ma avrei potuto pensare che per una serie di circostanze quel tizio si sarebbe affacciato alla finestra, vedendoci.”
“Va bè comunque sei stato coraggioso, tutto sommato” disse Jole quasi contenta in fondo che avessi voluto aiutare il mio amico.
Mi guardava con un certo interesse.
Azzardai “Allora sono perdonato?”
“Be, si, mi sembra che il giorno in cui mi hai dato le rose già te lo avevo fatto capire”
“Si, più o meno” dissi io.
C’era tensione sessuale tra di noi e io dopo essermi quasi suicidato adesso avevo voglia di vivere, tra le sue gambe, sul suo petto.
Mise una mano sulla mia e mi guardò dritto negli occhi.
Pregustavo il momento in cui sarei stato di nuovo nel suo letto.
I presupposti c’erano. Ma forse se si fosse concessa quel giorno,il suo mito si sarebbe un po’ attenuato dentro di me.
E infatti non si concesse.
Mi salutò davanti al portone del palazzo con un bacio sulle labbra, strofinandosi ben bene con le tette sul mio petto.
Salì a casa lentamente. Entrai, andai nella camera da letto. Aprii la finestra. Una musica familiare saliva da casa di Jole verso la mia. Era il preludio Raindrop di Chopin.

La prossima settimana il romanzo riprenderà da dove è stato interrotto. Qualsiasi vostro commento è gradito … a presto.

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