Frank Russel Capra, nato Francesco Rosario Capra in quel di Bisacquino (Palermo), ci ha lasciato il 3 settembre 1991, esattamente venticinque anni fa, e per quanto sia stato per tutta la vita uno dei massimi cantori della cosiddetta “american way of life”, non è improprio definirlo anche un orgoglio del nostro Paese.
Classico esempio di migrante di successo, egli si avvicinò al mondo del cinema in modo abbastanza fortuito, svolgendo un po’ tutti i ruoli e compiendo anche una discreta gavetta, prima di diventare uno dei registi più celebri e apprezzati della sua epoca, attaccato dai detrattori per l’eccessivo manierismo e per quella che veniva considerata una stucchevole retorica dell’ottimismo, forzata ed eccessiva, ma al tempo stesso apprezzato da un pubblico più che mai bisognoso di favole e di lieto fine negli anni tragici della crisi e dell’incertezza.
Nessun cineasta ha saputo, infatti, incarnare meglio di lui lo spirito dell’America profonda a cavallo fra gli anni Venti e gli anni Quaranta, nel ventennio del proibizionismo sciocco e della depressione economica, dei proclami rooseveltiani sull’importanza della fiducia, della guerra e del tentativo globale di risorgere dalle macerie di una stagione buia e colma di dolore e sofferenza.
Nessun regista ha saputo sferzare meglio di lui alcuni vizi atavici dell’universo americano, quali la furbizia posta al servizio di affari eticamente inaccettabili, la corruzione, la spregiudicatezza propria di una certa politica, l’indecenza di determinati comportamenti, il pregiudizio e molti altri ancora, sempre messi in risalto con un misto di buonsenso e amara ironia e fustigati da una narrazione incalzante e in grado di trasportare gli spettatori nel contesto di una Nazione in bilico, di una società in ginocchio, di un mondo stretto nella morsa fra bene e male, libertà e autoritarismo, piena affermazione dell’essere umano e sua tragica negazione.
Col suo umorismo, la sua leggerezza che mai scadeva in inutili frivolezze e il garbo tipico dei suoi personaggi, Capra ha realizzato una sorta di grande romanzo americano, un affresco indimenticabile e tutt’oggi celebrato non solo per la bellezza delle sue opere ma anche per la loro attualità, a dimostrazione di quanto egli sia riuscito a cogliere l’universalità di molteplici messaggi, in fondo riassumibili nell’esortazione a non arrendersi mai.
E forse è vero ciò che ha asserito su di lui James Stewart: “Fra tanti film che ha fatto, la storia più bella è quella della sua vita. Piena di alti e di bassi, su e giù come le montagne russe. Una vita incredibile. Poteva succedere solo in America”. Già, perché vien da chiedersi quale mestiere avrebbe svolto questo ingenuo sognatore ricco di umanità se non avesse incontrato il Paese del sogno per antonomasia, dell’eccezionalismo elevato a progetto collettivo e della positività quasi obbligatoria.
Difficilmente, se fosse rimasto in Italia, lo avremmo trovato dietro a una macchina da presa a fare concorrenza a De Sica, Germi e Rossellini nella stagione del neo-realismo, in quanto la sua arte è figlia di una precisa concezione della vita e dei rapporti umani.
Nonostante ciò, possiamo asserire che i suoi successi siano un po’ anche i nostri, poiché dell’Italia si era portato dietro la caratteristica più bella, quella che rende unico e speciale il nostro carattere: la capacità di essere grandi nei momenti difficili, proprio come i suoi personaggi che alla fine si pentono, che rifiutano di rendersi complici di un’ingiustizia, che percorrono, sia pur in extremis, la via del bene e della solidarietà, riprendendo alcuni tratti tipici di un popolo capace di unirsi e dare il meglio di sé nei contesti straordinari.
Non a caso, quando capì che questo suo affascinante romanzo del bene aveva ormai fatto il suo tempo, lasciando spazio alla routine di un capitalismo predone e fagocitante, in quel momento non ha avuto remore a farsi da parte, ritirandosi dall’attività cinematografica e vivendo di ricordi, molti dei quali esaltanti e in grado di riservargli un posto d’onore nella storia del cinema,
E così, a settant’anni dall’uscita di “La vita è meravigliosa”, a mio giudizio il suo film più intenso e significativo, vien da dire che aveva proprio ragione quando concludeva che “nessun uomo è un fallito se ha degli amici”. Lui ne ha avuti e se li è saputi conservare, mantenendo intatto il proprio candore e la propria spontaneità.
Ci manca una figura così, specie in quest’epoca di ciarlatani eccessivamente seriosi e al cospetto di un’America sconvolta dalla cattiveria, dalla violenza e dalle divisioni provocate da una campagna elettorale mai tanto squallida e priva di esclusione di colpi. Ci manca l’uomo prima ancora del regista, il che, oggettivamente, capita davvero a pochi.