“Peccati di fabbrica”, di Giorgio Mereu

Continuiamo con la serie di racconti brevi, scritti da vari autori. Fino all’inizio delle vacanze, verranno pubblicati con una cadenza di circa dieci giorni. Vi presentiamo “ Peccati di fabbrica”, di Giorgio Mereu:  quando la fortuna aiuta gli audaci

Io ci lavoravo da quasi venti anni alla Italmecar di Latina, ero entrato come apprendista operaio e mi sono fatto tutti i reparti, alla fine sono diventato un tecnico specializzato. Ho costruito ogni tipo di freno, dai tamburi fino ai dischi ventilati, sono diventato talmente bravo che ora mi occupo di freni elettrodinamici, che sono quelli montati sull’albero motore di grandi camion, autobus, filobus e treni e che si basano su un generatore elettrico. Dal nulla sono diventato uno dei migliori della mia fabbrica che è cresciuta con me. Ma ora lei sta morendo.
Che non ce la passassimo più bene lo avevo saputo da un’assemblea con il sindacato. Difatti, avevano fatto un accordo con la proprietà per la riduzione della produzione e la cassa integrazione a rotazione. Poi, dopo un po’, si è saputo che volevano delocalizzare, cioè portare il lavoro all’estero e lasciare qui, ancora per qualche anno, la costruzione degli impianti frenanti elettronici. A me, rimanere al lavoro per qualche anno avrebbe fatto comodo, perché avrei maturato la pensione minima, ma che le cose si sarebbero messe male l’ho capito quando i sindacati avevano firmato un’intesa per la riduzione del personale con l’Ingegnere venuto da Udine e c’erano stati degli scioperi spontanei contro gli stessi sindacati.

Poi finito lo sfogatoio, anche se qualche sindacalista s’era preso un ceffone, la proprietà era andata avanti come una ruspa e aveva astutamente avviato la procedura di cessione di ramo d’azienda. In pratica la nostra azienda ci vendeva ad una impresa estera, che guarda caso era in Croazia, arrogandosi il compito di vendergliela ben ripulita di parecchio personale.
Che eravamo alla frutta poi, ne ho avuto conferma, quando ho ricevuto la raccomandata di presentarmi al responsabile delle risorse umane, il tal giorno alla tal ora per comunicazioni che mi riguardavano.
Ed io alla tal ora del tal giorno a parlare con “il fighetto” ci sono andato. Lo chiamavano il fighetto perché era un bel giovanotto e la mattina arrivava con la sua bella coupé tedesca allo stabilimento, direttamente da Roma. Non s’era scomodato neanche di abitare vicino e la sua abitudine la diceva lunga su quanto effettivamente non avesse alcun bisogno di lavorare.
Non era parente dei proprietari però era benestante di famiglia, il padre era un chirurgo estetico e la madre, girava voce, che avesse più appartamenti che capelli in testa. Probabilmente voleva iniziare una qualche carriera e c’era riuscito, però anche lui aveva puntato sul cavallo che si era azzoppato.
Le segretarie di direzione a mensa si davano sempre di occhiolino quando parlavano di lui e qualcuna, secondo me, c’era pure stata e altre ci sarebbero state. Ma per lui era solo un passatempo nel passatempo di fare il capo del personale.
Tornando a me. Mi ricevette nel suo ufficio e prima che mi desse un po’ di attenzione dovetti attendere che finisse delle telefonate. Appena terminò, senza scusarsi neanche per l’attesa, si accomodò bene sulla poltrona da dirigente e rigirando una matita tra le dita mi comunicò laconicamente che il mio nominativo non rientrava tra le risorse umane che sarebbero rimaste in produzione e che sarebbe stato meglio se avessi incominciato a darmi da fare per un nuovo lavoro.
Eh no! Sbattei la mano sul lucido legno facendolo sobbalzare, “io qui ci sono nato, ‘sta fabbrica è cresciuta con me, sono talmente specializzato che voglio vedere chi terrete al posto mio. Magari qualche sindacalista firmaiolo e compiacente….”

Il capo del personale mi lasciò sfogare, poco o per nulla impressionato dalle mie esclamazioni.
Si alzò e per un attimo pensai volesse mettermi alla porta, invece fece il giro della scrivania e si mise seduto sulla poltroncina accanto alla mia. Si sedette con gli avambracci appoggiati alle ginocchia e con il capo proteso in avanti come chi si prepara a fare una confidenza.
“Vede, lei è uno dei migliori, forse anche il migliore dei tecnici che abbiamo, il problema è che non sono io a decidere chi resta e chi va”. Fece una breve pausa e si avvicinò ancora di più tanto che potevo sentire il profumo che portava addosso. “ll problema di questa azienda è che ha inviato qui l’Ingegnere” e mentre lo diceva fece un cenno col capo verso la porta, ”lui è qui per tagliare e basta, non mi ascolta, è una specie di macchina per licenziamenti e proprio stamattina mi ha passato l’elenco di altre venti persone, tutti bravi lavoratori, padri e madri di famiglia col mutuo, la scuola dei figli. Gente che già arranca a fine mese con uno stipendio figuriamoci con la cassa integrazione e la prospettiva del nulla.”
Visto che le parole me le sussurrava, anch’io gli sussurrai “ma che cosa possiamo fare”.
“Niente!” Esclamò tirandosi indietro e rialzandosi. Si avvicinò al finestrone che dava sul piazzale e voltandomi le spalle disse: “bisognerebbe che l’Ingegnere se ne andasse da un’altra parte, qualsiasi altra parte. Così dalla casa madre dovrebbero nuovamente riorganizzare il piano industriale ed affidare a qualcun altro che conosce bene la realtà della Italmecar il compito di decidere delle risorse umane.”
Quando disse queste ultime parole ebbi la sensazione che volesse intendere se stesso come colui che poteva ben risolvere la situazione, e volesse in questo includere anche la mia di soluzione.
“Finché c’è l’Ingegnere” riprese “questa è la fine che vi è stata riservata, la saluto”. E con questo aprì la porta e mi indicò che la nostra conversazione era definitivamente terminata.
Mi ritrovai nel corridoio della palazzina con la prospettiva di andare in cassa integrazione, moglie che non lavorava e due figli che ancora andavano a scuola. Solo all’idea di come avrei finito di pagare il mutuo mi sentii le ginocchia cedere per un attimo. Non poteva finire così.

Salii le scale che portavano all’ufficio dell’Ingegnere. Mi sentii ancora più a disagio in tuta e camice blu da officina ma dovevo tentare.
Bussai alla porta dell’ufficio ed entrai anche perché dopo una decina di secondi nessuno si era degnato di dirmi “avanti”. Aprendo la porta incrociai lo sguardo della segretaria che non mi sembrò sorda ma solo molto stronza.
Neanche mi chiese chi ero e che volevo, stava lì a guardarmi e basta. “Vorrei parlare con l’Ingegnere, per favore”.
“L’Ingegnere non riceve il personale, deve rivolgersi alle risorse umane al piano di sotto” pensò così di arginare qualsiasi pretesa.
Spiegai che c’ero già stato e che avevo un motivo importantissimo per parlargli. La segretaria continuò a guardarmi come fossi un cretino che non aveva capito il messaggio subliminale delle sue parole. Io decisi di non muovermi e rimasi  a fissarla.

“L’Ingegnere è in riunione” contrattaccò.
“Capisco, posso attendere qui”?
Si sbarazzò temporaneamente di me con un “No, vada in fondo c’è il salottino d’attesa, le farò sapere io. Nel caso”.
Ringraziai e trovai il salottino attesa vicino all’uscita di emergenza. Decisi di sedermi, non sapevo quanto avrei dovuto aspettare. Dopo una decina di minuti di attesa presi una rivista dal tavolino. Erano tutte riviste del settore. Vibrò il mio telefonino, non era il momento di fare due chiacchiere ma era da casa. Mia figlia era andata dal dentista che aveva fatto il preventivo per l’apparecchio; il costo equivaleva a due mesi di stipendio, per fortuna si poteva pagare a rate. In un altro momento sarebbe stata una preoccupazione, ma in cassa integrazione sarebbe stato un problema risolto: non si poteva fare e si sarebbe tenuta i denti storti.
La segretaria si affacciò sulla porta, “Venga faccia presto, l’ingegnere può per due minuti”.
L’Ingegnere sedeva dietro la sua scrivania moderna, consultando contemporaneamente due schermi piatti del computer. L’Ingegnere era un omaccione, grosso ma anche grasso, la testa chinata sulla tastiera era quasi calva, abbronzata con qualche stilla di sudore. Anche lui aveva scelto di abitare a Roma, probabilmente per riservatezza, visto il suo compito di tagliatore di teste. Si diceva che avesse una moglie molto più giovane di lui, anche carina e che fosse anche incinta. Il tutto strideva con quell’essere pesante che avevo di fronte. “Sto andando in riunione, cosa mi deve dire?”.
Provai a spiegargli la situazione, mentre parlavo il suo sguardo andava da me agli schermi. “La fermo! Io ho molto rispetto per lei come lei lo deve avere per me. L’azienda deve fare questa operazione sennò il lavoro non ci sarà per nessuno, ne qui ne altrove, se il suo nome è tra quelli che devono andare in cassa integrazione o altro non posso fare alcun favoritismo” concluse, come se fossi andato li a chiedergli di fare una cosa sporca. Bella tecnica, chissà dove l’aveva imparata.

Tornai al reparto. I rumori tipici dei macchinari ed il ronzare delle apparecchiature di taratura presto, per me, sarebbero stato un ricordo.
Insieme ad altri colleghi, negli ultimi minuti della pausa pranzo facemmo una passeggiata nel piazzale della palazzina. Passammo di fronte al garage delle auto degli impiegati. Mi tornò in mente una frase del fighetto: “bisognerebbe che l’Ingegnere se ne andasse da un’altra parte….”.
Ripassai mentalmente tutte le cose alle quali avrei dovuto rinunciare, non solo io ma tutta la mia famiglia e non riuscivo affatto ad essere ottimista sul trovare un altro lavoro dopo la cassa.
La decisione di fare qualcosa non la presi in maniera ragionata, fu solo una specie di lasciarsi andare.
Alle sei del pomeriggio l’azienda si svuota, solo anni fa si faceva un doppio turno. Attesi di rimanere solo, poi utilizzando le scale antincendio scesi nel magazzino e da questo arrivai nel garage.
Le porte di accesso che avevo utilizzato si aprivano con un maniglione antipanico solo in un senso, le lasciai socchiuse portandomi dei pezzetti di legno per imballaggio.
Anche il garage era ormai semivuoto. Rimaneva la coupé del fighetto ed altre auto dei dirigenti. Tra queste il berlinone station wagon dell’Ingegnere.
Mi accucciai accanto alla ruota anteriore più nascosta, infilando la mano dietro il freno a disco trovai il tubicino che porta il liquido dei freni. Avevo con me una chiave da “8” ed una piccola tronchese. Svitando parte della chiusura a vite il tubicino in gomma rimaneva leggermente scoperto. La tronchesina mi servì per fare un’incisione di un paio di millimetri. Sentì il liquido inumidirmi i polpastrelli.
Feci a ritroso la strada, tornai in laboratorio e una volta cambiatomi la tuta, me ne tornai a casa.

Quello che avevo fatto, era nelle intenzioni solo un gesto dimostrativo. Non avevo compromesso l’intero sistema frenante della berlina dell’Ingegnere, certo che la frenata asimmetrica gli avrebbe procurato un sonoro spavento e speravo con questo di indurlo a ripensare alla sua drammatica presenza su questa terra e ai danni che stava infliggendo alla vita di poveri diavoli.
A casa, la sera a cena non accennai a nessuno dei fatti della mia giornata ancora lavorativa. La notte fu agitata per l’eccitazione di quello che sarebbe stata la possibile reazione dell’Ingegnere. Magari, una volta scoperto il danno avrebbe avuto paura e si sarebbe ritirato, oppure non era successo niente perché il taglio era troppo piccolo e solo dopo molto tempo si sarebbe accesa la spia di malfunzionamento del circuito dei freni.
Oppure avrei trovato i Carabinieri ad aspettarmi perché qualcuno mi aveva visto o l’Ingegnere aveva avuto dei sospetti.
La mattina dopo la Polizia l’incontrai sul serio, sulla seconda curva che in salita portava alla fabbrica, alle 8,30 c’era traffico di auto incolonnate. A passo d’uomo sfilai accanto ad una volante della stradale. Un agente agitava la paletta ed invitava la gente ad essere meno curiosa ed andare avanti. Un carro gru ripiegava il suo braccio sollevatore. Accanto sul pianale di un carro attrezzi una grossa berlina, ovvero i resti di una grossa berlina con le lamiere schiacciate ed i finestrini esplosi.
“ Madonna mia che ho fatto!” Pensai.
Nel piazzale dell’azienda c’erano altre auto della Polizia.
Io avevo il cuore che batteva a mille e mi sentivo le viscere in rivolta. Mi misi la tuta e il camice e andai in laboratorio. Nel corridoio incontrai altre persone  che andavano via con delle grosse borse con su scritto “Polizia Scientifica”.
Pensai fossero lì per cercare me, anche se ancora non lo sapevano che ero io il sabotatore.
Arrivai al laboratorio. I miei colleghi non avevano acceso i macchinari e facevano capannello intorno ad un impiegato dell’amministrazione. Quando mi avvicinai tutti volsero lo sguardo su di me, ma subito tornarono sull’impiegato.
“Allora sembra che sia successo così: l’Ingegnere ha aspettato che non ci fosse tanta gente, ha chiamato su il fighetto.
Poi hanno sentito che discutevano, addirittura dal piano di sotto strilli e urli, poi un botto e l’Ingegnere che scendeva le scale di corsa. Ha preso la macchina ed è partito a tutta velocità, giù alla seconda curva, si vede che andava come un matto, la macchina è uscita di strada, è rotolata nel canalone e lui è morto sul colpo.
Nel frattempo la segretaria del fighetto ha chiamato la guardia giurata, quello ha visto l’Ingegnere che scappava sgommando ed  è salito nel suo ufficio e ha trovato il fighetto in un lago di sangue con un colpo di pistola in fronte”.

Dalla Cronaca nera del quotidiano di Roma e Latina:

Omicidio in fabbrica
Ieri sera, alla Italmecar fatto di sangue. L’Ingegnere incaricato della riorganizzazione dell’azienda ha ucciso il direttore del personale. Da una e-mail inviata pochi minuti prima  ad un parente, sembra che il movente dell’omicidio sia passionale. Difatti è stata la stessa moglie dell’Ingegnere, ad informare gli inquirenti del movente, dichiarando di aver confessato, due giorni fa,  al marito  di essere incinta a seguito di una relazione sentimentale  clandestina con il giovane dirigente ucciso. Successivamente all’omicidio, l’Ingegnere è morto perdendo il controllo della sua auto lanciata a tutta velocità. Sempre nella e-mail inviata al fratello, sembra che l’ingegnere, dopo aver compiuto il primo omicidio, avesse comunicato la volontà di raggiungere a casa la moglie per assassinarla come aveva fatto al suo amante. L’incidente ha impedito all’uomo di proseguire nel suo intento omicida.

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