Arte. It’s just a game! Intervista a Maria Rosa Jijon

Una linea gialla, frastagliata e irregolare, divide il pavimento. Pende dal soffitto una giostrina per bambini da cui dondolano dolcemente degli aeroplani colorati. La colonna sonora di Super Mario Bros è sparata a tutto volume nelle orecchie e nelle coscienze. Sulla parete un cartello recita ‘Stop Illegal Alien Invasion’

ROMA – L’installazione ‘It’s just a game’ di Maria Rosa Jijon ti accoglie così. Una serie di elementi che giocano con i doppi sensi e che dietro l’aspetto ludico e giocoso rivelano una realtà aggressiva e violenta. Il rimando ai migranti, che non appaiono mai nell’installazione, è continuamente fatto rivivere da quella linea sul pavimento – che divide e separa, che segna il limite dell’attraversamento – dal cartello sul muro che richiama il tema delle invasioni ‘aliene’ (sinonimo di straniere), dagli aerei che pendono dal soffitto ad evocare, con un umorismo tetro e sinistro, i ben noti droni utilizzati per monitorare l’attività migratoria lungo i confini. Il tutto condito con la musica del videogioco Super Mario Bros che esalta al massimo la sensazione di trovarsi in un gioco e non nella realtà. E proprio da questa confusione emotiva e sensoriale scaturisce la crudeltà a cui è necessario resistere. Abbiamo incontrato Maria Rosa Jijon ,nello spazio Menexa, dietro piazza Farnese, dove fino al 23 dicembre sarà possibile vedere l’installazione che si inserisce nel più ampio progetto “Ventinovegiorni di (resistenza)” curato da Federica La Paglia (vedi box). “Questo progetto artistico si chiama ‘It’s just a game’ dove la parola game in inglese significa sia gioco che preda di caccia. Il tema dei contesti migratori, della mobilità umana, dei confini e gli attraversamenti, dell’appartenenza/non appartenenza è qualcosa che fa parte del mio lavoro da sempre da quando ero studente straniera in Svezia a quando sono arrivata come migrante in Italia. E’ la mobilità che mi affascina in tutti i contesti sia territoriale che emotiva, sia fisica che psicologica.”

Come nasce questo lavoro?
Ho cominciato una ricerca per capire come si potesse parlare, anche astrattamente, della questione della mobilità a livello politico. Mi sono imbattuta in una serie di soggetti politici e istituzionali che mi hanno portato a riflettere. Per prima cosa ho scoperto l’esistenza di Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea ndr) un’agenzia della UE che si occupa del controllo delle frontiere e degli accordi con i paesi limitrofi per la gestione dei migranti che si presentano alle frontiere; un grande esercito antimigrazione. Un altro elemento che ha suscitato la mia curiosità è la non corporeità della guerra attuale che viene realizzata attraverso i droni (apparecchi volanti telecomandati ndr); in questo tipo di guerra l’essere umano non esiste più; a chi comanda un drone sembra di essere in un videogioco dove la parte emotiva viene completamente annullata. Questo tipo di apparecchiature viene utilizzata anche per il controllo delle frontiere. Mi sono imbattuta in internet nelle immagini che mostrano il tipo di visuale che hanno i soldati che guidano dei droni; i migranti vengono rappresentati come dei puntini sul territorio. Mi sono chiesta come fosse possibile non rendersi conto che quei puntini fossero persone, esseri umani. Questa confusione tra reale e irreale, tra vero e falso mi ha colpito e mi ha ispirato per la realizzazione di questo progetto. Ho inserito nel lavoro anche i ‘messaggi’ dei movimenti antimigrazione: una serie di cartelli stradali che recitano, ad esempio, ‘Attenzione attraversamento migranti’, ‘In questo negozio non possono entrare immigrati’ anche questi a metà strada tra gioco e finzione. A partire da questa dialettica vero/falso sono nati dei dispositivi che sembrano dei giochi che mi servono per parlare di qualcosa che invece gioco non è. Inganno lo spettatore, lo seduco attraverso il colore e il messaggio, e lo ‘costringo’ così a guardare una cosa che invece ha dei tratti di crudeltà e violenza. Ho cominciato a studiare la frontiera più nota che è quella Messico/USA e ho scoperto che Frontex sta usando gli stessi metodi in quella che è attualmente il confine più caldo, Turchia/Grecia dove ogni anno vengono costruiti nuovi centri di detenzione. C’è un investimento europeo in questo settore.

Perché questo tema ti coinvolge così profondamente?
Sono ecuadoriana e, pur avendo completato gli studi nel mio paese e quindi essere stata stanziale durante la mia infanzia e la mia giovinezza, vengo da una famiglia molto nomade. Ci sono fratelli, zii, parenti che hanno vissuto all’estero e la riunione familiare annuale sanciva questo nomadismo. Il mio primo trasferimento è stato a Cuba dove ho studiato un anno alla Scuola di Bellas Artes; ma il contesto sudamericano in cui sono rimasta non mi ha permesso di considerare quello spostamento come una migrazione. Poi però mi sono trasferita in Svezia per due anni. E’ stato lì che ho cominciato a fare un lavoro molto intimo su cosa si prova ad essere straniero, sull’appartenenza e l’identità. Nel mio paese la diversità è un fatto, in Svezia invece per la prima volta venivo osservata in chiave etnica. Questo ha risvegliato in me una serie di considerazioni e riflessioni che ho continuato a coltivare al mio ritorno in Ecuador e poi al mio arrivo in Italia, luogo in cui per la prima volta ho visto dei cartelli razzisti, si era nel pieno trionfo della Lega Nord. Da quel momento mi è apparsa chiara e nitida la figura del migrante.

Questo interesse per ciò che è straniero, nel senso di estraneo, ha qualcosa a che vedere con il tuo paese, l’Ecuador, dove la diversità culturale è così assoluta?

Penso anche all’influenza delle nazionalità indigene che sono così presenti, specialmente negli ultimi anni, anche nell’elaborazione politica e culturale.
L’Ecuador ha vissuto negli ultimi 10 anni un momento di grande cambiamento dove gli ‘altri’ siamo diventati noi. C’è stata una trasformazione che ha permesso l’ingresso e la visibilità di tutto ciò che fino a pochi anni fa era considerato ‘altro’. Questo ‘altro’ è diventato il centro della discussione politica, economica, sociale, culturale. Io sono cresciuta durante la dittatura, un periodo in cui le pratiche di esclusione sociale e ovviamente politica erano palesi, sotto gli occhi di tutti anche se nessuno le nominava perché erano parte integrante del vissuto sociale. Le condizioni di semischiavitù erano considerate normali. La transizione che abbiamo vissuto e stiamo vivendo nel mio paese è un passaggio molto affascinante perché abbiamo transitato da un mondo in cui erano possibili delle pratiche medioevali, ad un mondo in cui questo non è più possibile e sono possibili invece altre cose. Questi processi senza dubbio si sono fissati nella mia memoria e nella mia identità di artista, definendomi.

Galleria fotografica
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Video della Performance realizzato da Massimiliano Padovan di Benedetto

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