Riflessioni sulla 55. Biennale Arte di Venezia in chiusura

La conoscenza, l’inconscio e i dolori del giovane Gioni 

A una settimana dalla chiusura della 55.Esposizione d’Arte-la Biennale di Venezia, raccogliamo impressioni e appunti per proporre una breve riflessione intorno alla proposta del direttore di questa edizione, Massimiliano Gioni.

Alla giusta distanza dalla inaugurazione, appare evidente come il lavoro del curatore/direttore abbia segnato in maniera precipua il corso de la Biennale degli ultimi anni, attraverso un progetto complesso, stratificato e con elementi di personale guizzo curatoriale che non si vedevano a Venezia probabilmente dai tempi di Harald Zeeman.

Già il titolo – guida del progetto e sunto del suo senso – è un segno preciso.  Di contro alla scelta usuale di assegnare a la Biennale titoli spesso pretestuosi, cappelli ampi sotto cui far rientrare tutto il possibile, Gioni con “Il Palazzo Enciclopedico” ha invertito la rotta, proponendo un tema che raccoglie in sé il tutto ma segnando, al contempo, un limite concettuale preciso.

Il tema della mostra parte dall’idea (mai concretizzatasi) dell’artista italo-americano Marino Auriti, il quale nel 1955 depositò presso l’ufficio brevetti statunitense il progetto di un museo, che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità. Il palazzo, dalle enormi dimensioni, non fu mai realizzato, ma la visione di un unicum in grado di raccogliere, sintetizzare e diffondere la globalità del sapere è stata condivisa, come sfida, da Gioni.

Considerando l’ovvia impossibilità dell’impresa, la scelta del curatore di affrontare la questione dal punto di vista dell’approccio psicanalitico – soffermandosi sulla valenza strutturale dell’inconscio nella costruzione della conoscenza e della consapevolezza – ha consentito l’elaborazione di un discorso visivo organico e approfondito che non esclude arti minori (come il fumetto), artisti poco noti e finanche non artisti.

In questo modo Gioni ha effettivamente lavorato sulla transdisciplinarietà dell’arte contemporanea, evidenziando anche le contraddizioni del mercato – fermamente ancorato alla “purezza”  e alle regole della “notorietà” – e degli operatori (critici, curatori, fondazioni, riviste…) che pur promulgando le contaminazioni in realtà rimangono ancorati alle regole dello stretto mercato.

La numerosa presenza in mostra di artisti non professionisti (come quelli arrivati all’arte attraverso sperimentazione terapeutica personale) da una parte conferma il suddetto approccio innovativo, dall’altra però – a causa dell’insistenza sul profilo dell’autocoscienza e dell’inconscio come via conoscitiva – appare come precisa dichiarazione politica anche intorno all’arte e all’identità dell’artista, non condivisibile nella misura in cui esclude la conoscenza come risultato di lavoro scientifico e della ricerca continuativa che segna (e deve segnare) il percorso dell’artista in quanto tale. 

La mostra – che parte significativamente dal libro rosso di Jung – si sviluppa quasi come un percorso psicoanalitico, soffermandosi particolarmente (talvolta finanche troppo) su alcune tematiche tipiche, quali l’infanzia e la sessualità, vissuta perlopiù nei termini di perversione, sofferenza, oscurità. Risulta quasi l’esplorazione di un soggetto in analisi sebbene – e di qui l’ulteriore stratificazione – sia evidente uno studio curatoriale rigoroso che sottende, tradendolo, il concetto portante della mostra.

In generale emerge con chiarezza il segnale di un cambiamento, che si spera abbia un seguito nelle prossime edizioni. È evidente che Gioni ha elaborato un progetto complesso, quale è sempre quello de la  Biennale, senza cedere a facili scelte (come è accaduto in altre edizioni) riuscendo a compiere un’impresa difficile, elaborando un chiaro pensiero critico al centro del progetto e processo espositivo. Dovrebbe essere ovvio, ma non sempre lo è.

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