Intervista a Daniela Lancioni curatrice della mostra sugli Anni ’70 a Roma

ROMA – In un momento di grande difficoltà per Roma, di cui inevitabilmente soffre anche la scena culturale e artistica, privata dei vivaci progetti del passato, colpita ad esempio dall’incerta sorte del MACRO – ancora con un direttore ad interim e privo di gran parte del suo personale – ma soprattutto segnata – pure nella progettualità – dall’assenza di una reale politica culturale che condiziona la vita del cittadino/pubblico e degli operatori professionali (artisti, critici, curatori, galleristi etc..), viene spontaneo riflettere su periodi comunque molto duri della nostra storia, in cui la cultura ha invece giocato un ruolo importante, talvolta dirompente.

Siamo andati a vedere la mostra “Anni 70. Arte a Roma”, appena chiusa al Palazzo delle Esposizioni ed abbiamo incontrato la sua curatrice, Daniela Lancioni, con cui abbiamo scambiato alcune battute sul progetto espositivo e su quegli anni.

Ti dedichi agli anni Settanta da molti anni, hai firmato ricerche e pubblicazioni, e lo stesso catalogo della mostra “Anni ’70 Arte a Roma” si presenta come un ulteriore elemento di analisi. La mostra è stata una naturale evoluzione dei tuoi studi? Come è nata e perché?

Tutto è partito con la mia testi di laurea che, nel 1995, divenne una mostra documentaria e un libro, per volontà di Cinzia Salvi. responsabile del Centro Ricerca e Documentazione Arti Visive che allora faceva parte del Palazzo delle Esposizioni. Il titolo suonava così: “Roma in mostra 1970-1979. Materiali per la documentazione di mostre azioni performance dibattiti”.

Quello dei ’70 è stato un periodo di grandi sconvolgimenti politici e sociali, la scelta di proporre la mostra oggi, in un altro periodo nodale della storia italiana e internazionale ha un significato cercato e voluto?

A tal proposito viene da riflettere anche sulle incidenze che un certo disagio socio-politico ha sulla produzione artistica di una luogo o contesto. È interessante notare, ad esempio, la contrapposizione forte tra la vivacità, culturale e artistica, di quegli anni e la paludosa attualità…

Nelle conversazioni avute con lo storico Francesco Bartolini durante la preparazione del catalogo è emersa l’ipotesi che gli anni Settanta del secolo scorso possano considerarsi una sorta di spartiacque e che molti dei processi allora avviati riguardino ancora l’attualità. Il nostro interesse, pertanto dell’istituzione e degli studiosi con i quali abbiamo lavorato a questo progetto, è di interrogare il passato anche per trovare lumi capaci di far luce sul presente.

Per quanto riguarda quella che tu chiami “la paludosa attualità”, anche altri mi hanno suggerito questa contrapposizione tra gli splendidi – dal punto di vista delle arti visive – anni Settanta e il presente. Ma io, nonostante l’eccezionalità inimmaginabile oggi di quel passato, non riesco ad aderire a questa idea disfattista sul presente. Roma pullula di strane e alternative iniziative e come al solito è una città piena di artisti…

Alcuni, come Fabio Sargentini – gallerista de l’Attico, spazio determinante in quegli anni – hanno criticato la scelta di musealizzare proprio quella fetta storia col suo carico di innovazione, fatto di performance, happening, azioni e mostre di rottura, nuovi spazi, anche alternativi…Come hai affrontato la questione nella costruzione della mostra?

Fabio Sargentini è stato  – è tutt’ora – un grande catalizzatore di energie e nel suo L’Attico – rivoluzionario dal punto di vista linguistico – l’arte si è espressa nel modo più alto. Nella rotonda del Palazzo delle Esposizioni noi abbiamo omaggiato proprio una delle sue mostre, la cosiddetta Fine dell’Alchimia con il testo affisso alle pareti di Maurizio Calvesi e le opere di Gino De Dominicis, Jannis Kounellis e Vettor Pisani. Proprio quella mostra, insieme ad altri accadimenti, sanciva una sorta di voltar pagina rispetto a quello che Fabio Sargentini mi rimprovera di aver ignorato. L’identità tra arte e vita, ereditata dalle avanguardie storiche, e in auge fino al 1968 circa, è alle spalle della storia che abbiamo raccontato nella mostra attuale.

Ho guardato ai lavori di Jannis Kounellis configurati con impianto frontale: una sorta di frattura tra lo spazio del reale e quello dell’arte che permette a questa di incarnare – seppure attraverso oggetti estranei alle tecniche tradizionali della pittura e della scultura ed esseri viventi – lo spirito epico, la parola universale rivolta a molti. Ho guardato al Giuseppe Penone che vede il rischio di estetismo nelle azioni che finiscono con l’essere conosciute attraverso le fotografe e riflette sulla necessità di tornare alla verità delle cose e alla realizzazione di opere “autonome e durevoli”; a Luciano Fabro che riflette sulla scultura…..a Sol LeWitt che, dopo avere teorizzato i principi cardine dell’arte concettuale, li cala nell’invenzione dei wall drawing, di fatto disegni, seppure passati al vaglio di idee rivoluzionarie dal punto di vista linguistico e anche politico.

In che modo, ad esempio, il documentato richiamo alle quattro fondamentali mostre dell’epoca – Fine dell’alchimia (1970) proprio a L’Attico; Vitalità del negativo (1970)  al Palazzo delle Esposizioni; Contemporanea (1973) nel parcheggio di Villa Borghese; Ghenos Eros Thanatos (1975) a La Salita  – ha segnato la tua linea curatoriale e lo sviluppo espositivo del progetto? Raccontaci del tuo sguardo su quegli anni.

La documentazione delle mostre nella rotonda ha permesso di creare una sorta di premessa, un preambolo attraverso cui si è potuto – almeno spero – dare una idea di alcune eccezionali istituzioni: gli Incontri Internazionali d’Arte, L’Attico e La Salita e degli eroi che le hanno condotte: Graziella Lonardi Buontempo, Gian Tomaso Liverani e Fabio Sargentini (a testimonianza anche dei tanti altri che hanno dato linfa al tessuto romano di quegli anni e le cui gesta sono testimoniate nei materiali documentari esposti nel legii). Le mostre indicate nella rotonda sono , a mio avviso, anche tre importanti momenti della storia dell’arte e della critica d’arte, la sperimentazione della “scrittura espositiva” da parte di Achille Bonito Oliva e il nuovo spirito che segna il decennio interpretato da Calvesi e Boatto.

Nella Capitale negli anni ’70 arrivano moltissimi artisti internazionali. Ritieni Roma fosse paradigmatica rispetto a quello che accadeva sulla scena mondiale?

Paradigmatica della scena universale, oserei dire a tratti capitale dell’arte contemporanea, e al tempo stesso portatrice di una sua propria individualità.

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