Venezia. Anselm Kiefer a Palazzo di Ducale “Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce”

Anselm Kiefer torna a Venezia, città dove espose per la prima volta alla Biennale d’arte nel 1980, con una mostra allestita presso la Sala dello Scrutinio di Palazzo di Ducale, alla quale si accede dopo aver attraversato l’enorme salone del Maggior Consiglio e ammirato, tra le altre, opere di Carpaccio, Bellini e Tiziano. Su invito dei musei civici veneziani,

l’artista raccoglie la sfida di realizzare una serie di opere site specific di grandi dimensioni, dedicate a Venezia, che vanno a ricoprire interamente pareti e dipinti della sala, lasciando scoperte le sole lunette raffiguranti i dogi della repubblica e il soffitto dorato.

Il titolo della mostra, che campeggia al centro della prima opera, esposta nella saletta di passaggio della Quarantia, Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, è una citazione dagli scritti del filosofo veneto Andrea Emo, nel quale l’artista, dopo averlo scoperto qualche anno fa, ha riconosciuto il suo alter ego teorico filosofico.

L’opera, che si compone di alcuni alti pannelli disposti a semicerchio, attraverso le linee convergenti di un cimitero di legni carbonizzati e spessi volumi bruciati, delle cui ceneri è disseminato lo spazio sottostante, conduce l’osservatore verso il punto prospettico di fondo. Qui, sopra l’orizzonte, il cielo divampa di bagliori luminosi e colorati, la cui sorgente ha origine proprio dal rogo di libri ormai spento. Questo a significare che le opere di Kiefer, come gli scritti del titolo, vengono alla luce a partire dalla loro distruzione, ovvero, più precisamente, nel momento della loro creazione esse contengono già in sé la loro distruzione, la quale ne è anche la loro rinascita.

Se uno degli assunti filosofici di Andrea Emo era l’ontologica co-appartenenza di essere e nulla, Anselm Kiefer ha riconosciuto in questo pensiero la cifra della sua poetica artistica. Ancora nelle sue lezioni al Collège de France, prima di conoscere gli scritti del filosofo veneto, scriveva: “La realizzazione di un quadro è un costante avanti-e-indietro tra il nulla e qualcosa. Un’incessante oscillazione da uno stato all’altro”. Qui essere e nulla non sono due stati distinti che si succedano diacronicamente secondo un movimento che dal nulla conduca all’essere dell’opera finita, in quanto la loro oscillazione è un vero e proprio annodamento, tale da renderli sincronici e in fondo identici. L’essere e il nulla coincidono, sfumando istantaneamente l’uno nell’altro, come la luce filtra dalle tenebre della cenere. In un’intervista su Art Tribune, Kiefer afferma che “in Andrea Emo non c’è una simile cronologia; l’essere è sempre la presenza del nulla stesso. Il nulla non è presente se non come essere. Andrea Emo dice che “l’essere e il nulla si trasformano nel momento. Uno si trasforma costantemente e ritmicamente nell’altro. Possono solo sembrare di esistere in una condizione di prima e di dopo”.

Questa oscillazione è resa possibile dalla diade creazione/distruzione, attraverso la quale le opere vengono alla luce, assumendo nuove forme, in sé mai finite. Kiefer è un alchimista che sta dentro al processo del farsi dell’arte, trasmutando di continuo forme e materiali, e il suo scopo “non è il quadro finito ma il movimento, il flusso costante, il cambiamento perpetuo”. Il suo principio creativo è iconoclastico, distrugge immagini per creare nuove immagini, è distruzione creativa o creazione distruttiva, prendendo a prestito le due coppie di ossimori con le quali Joseph Schumpeter descriveva il modus operandi del capitalismo. Le sue opere subiscono torsioni, combustioni, cancellazioni, distruzioni e stratificazioni che coagulano simboli e memorie del passato attraverso l’azione creativa del presente che chiama a sé il futuro della sua distruzione. Fedele in questo alla sua convinzione che “l’autodistruzione sia sempre stata la finalità più intima e più sublime dell’arte… ma che qualunque forza abbia l’attacco, e quand’anche giunga fino all’estremo, l’arte sopravvivrà alle sue rovine”. In Kiefer poi la prospettiva si fa cosmica, nel suo convocare gli elementi naturali a partecipare alla trasformazione dei suoi dipinti. Dipinti che egli lascia per anni nei container, messi in una vasca di elettrolisi, seppelliti sottoterra, collocati all’aperto ed esposti alle intemperie, per poi essere esibiti: “Mi affido alla natura, non perché porti a una redenzione, ma perché mi aiuti a completare il quadro”.

Entrando dalla saletta della Quarantia, nell’ombrosa Sala dello Scrutinio, si rimane colpiti dal non vedere i teleri del Vicentino, del Tintoretto e di Palma il Giovane, andati a sostituire quelli distrutti dall’incendio che colpì Palazzo Ducale nel 1577, ricoperti dalle enormi tele del Venice Circle di Anselm Kiefer. Ma mentre i teleri dei maestri veneti omaggiavano in assoluto la gloria di Venezia, conquistata per terra e per mare, le tele di Kiefer intendono anche illuminare le ombre nascoste in quelle gesta gloriose. Da questo punto di vista, risulta interessante operare un confronto tra le tele sovrapposte, una sorta di cross-mapping, in grado di rivelare, in alcuni casi, una osmosi, una trasmigrazione tra il sotto e il sopra. Ad esempio nel dipinto, che sul lato est della sala, ricopre la Battaglia di Lepanto del Vicentino. L’opera di Kiefer è composta di tre livelli orizzontali. In quello più alto, sventola la bandiera della repubblica di Venezia, con il leone di San Marco, tesa da un vento di gloria che spira dalla vittoriosa battaglia raffigurata nel quadro sottostante. Il pannello intermedio, nel quale è dipinto l’incendio che avvolge palazzo Ducale, è un prima corruzione di tale gloria. Qui le fiamme invadono la facciata del palazzo, salendo al cielo e riverberando sull’acqua del bacino. Il pannello in basso rappresenta il regno dell’oltretomba, nel quale rimangono sospesi, come in un macabro teatrino di marionette, abiti di grandi e piccoli, uno di seguito all’altro. Abiti inframmezzati da falci, che nell’incendio e nella battaglia che ancora infuria sotto il dipinto, hanno mietuto le vite di coloro che li indossavano.

La storia di Venezia che Kiefer rappresenta, non ha un andamento cronologico. Egli contrae il tempo storico di vita della Serenissima, in un’istantanea, disseminata di simboli antichi e moderni, che convivono assieme, in un gioco storico e geologico, che celebra la transitorietà di quanto storicamente accade: “non riprodurrò la storia di Venezia, i costanti alti e bassi, cronologicamente, bensì come simultaneità, la simultaneità di un qualcosa e del nulla”.
Sul lato meridionale della sala, troviamo una grande tela con al centro una scala all’apparenza poco salda, che si inerpica dai canneti della laguna di Venezia, verso uno sfavillate cielo dorato. Una scala che unisce terra e cielo, come nel sogno biblico di Giacobbe (Genesi 28,11-19), non percorsa da angeli che salgono e scendono per rinnovare l’alleanza di Dio con gli uomini come nel sogno, ma con appesi umili oggetti inanimati, scarpe e indumenti, appartenenti forse a quanti resero possibile, pagandone il prezzo con la vita, la trasformazione di quella terra paludosa che era Venezia alle origini, in una potente repubblica marinara. Tema, quello della scala di Giacobbe, che l’artista ha utilizzato anche per esprimere la sua idea dell’arte: “L’arte compie continuamente fughe in avanti e passi indietro, sale e scende la scala di Giacobbe dell’evoluzione e quando la fortuna le arride allora le capita di raggiungere abissi insondabili”. Una teoria evoluzionistica dell’arte, consapevole che nessuna creazione artistica ha carattere di eternità, ma che comunque “l’arte sopravviverà alle sue rovine”, perché quello che risulta eterno è lo sforzo per produrla, ovvero per crearla e distruggerla.

Al centro del primo pannello sul lato ovest è raffigurata una luminosa tromba marina di piombo fuso, tra flutti dai riflessi argentei e immagini angeliche appena incise ai lati del quadro. Essa rappresenta la grazia divina che cala sul mondo, che secondo la Cabala, si è creato da sé. Dio infatti, nel momento della creazione si ritrae (Tzimtzum), per lasciare quello spazio vuoto che dia modo al mondo di farsi da sé.

Molti sono i materiali che Kiefer ha impiegato in questa mostra, combinandoli e stratificandoli, per esprimere su tela quella pletora di simboli che la storia di Venezia ha evocato in lui: olio, gommalacca, legno, carbone, carta, filo metallico, acciaio, zinco, tessuto, terra, paglia, corda, resina, corda, gesso, piombo, oro, terra, cuoio.
Nell’opera successiva, una selva di rami scheletrici sale da una terra algida e spettrale per intrecciarsi in modo spiraliforme sopra l’orizzonte, a sostenere una bara di zinco, spalancata e vuota. Qui l’artista allude alle famose reliquie di san Marco, santo patrono di Venezia, smarrite dopo il loro trasferimento in città da Alessandria nell’828 e poi miracolosamente riapparse a distanza di tempo.

Continuando sempre su questo lato troviamo una tela con in alto una processione di carrelli della spesa, biciclette e tricicli, carichi di paglia, carbone, cianfrusaglie, con appesi cartelli che riportano i nomi di alcuni dogi, ma che potrebbero anche assomigliare a etichette di prezzi. Si tratta solo di un’allegoria del potere della repubblica, celebrato anche in basso da una serie di sommergibili, o anche un riferimento alla paccottiglia che oggi viene venduta ai turisti che la visitano o ancora una critica a quello spirito mercantilista, che ha condotto la città alla sua vendita all’incanto e alla sua trasformazione in un parco a tema?
Questa imperdibile mostra, della quale abbiamo commentato alcuni dei 14 dipinti esposti, ci lascia con la sensazione di aver assistito a una contrazione e cristallizzazione dello spazio tempo. Anselm Kiefer, nel far precipitare eventi, simboli, forme, oggetti e materia, intrappolandoli nel presente delle sue opere, riesce a restituirci un fermo immagine di quella storia di Venezia, che appena usciti dalla mostra, riprenderà a farsi.

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