Lo spettacolo in scena a Roma fino al 4 marzo con Neri Marcorè e Claudio Gioè
ROMA – Gaber, Luporini, Pasolini. Trittico eretico di autori che hanno generato dubbi e promesso il gusto dell’Apocalisse. Dei loro testi e del loro sfrenato amore per l’Italia che imbarbariva a metà degli anni ’70, Neri Marcorè, Claudio Gioè e il quartetto da camera Gnu hanno offerto una preziosa sintesi di “teatro canzone”. Lo stesso caro a Gaber. Lo stesso che racconta con i suoni della vita e della scoperta. Tutto prende spunto da una famosa intervista che Furio Colombo fece a Pier Paolo Pasolini il 1° novembre del 1975, un giorno prima del suo omicidio. Da qui, dalla descrizione di uno scrittore scomodo e profetico, si snoda un percorso a due in cui Marcorè incarna Gaber e interpreta gran parte delle sue canzoni più emblematiche, mentre a Gioè è affidato il compito di essere Pasolini, con la sua “visione” per nulla consolante dell’Italia che cambiava “senza progresso e con poco sviluppo”.
I temi sono molti. Dall’impossibilità di un’appartenenza politica, poiché chi gestisce la cosa pubblica non sa dove sia e cosa avvenga nell’Italia reale; alla televisione come mezzo di proliferazione del male sociale e dell’appiattimento del gusto con le sue “laide bugie”; al comunismo che già allora era al suo tramonto e non rispecchiava le esigenze dei più giovani poiché incapace di accendere gli animi; al vibrante atto d’accusa messo in campo da Pasolini stesso con il tragico e decisivo “Io so”, che ricostruisce le più infami pagine della nostra storia stragista, di cui conosce mandanti e istituzioni al seguito, ma di cui non può far nome perché mancano le prove. E la verità ne ha un assoluto bisogno per diventare azione. Il quadro è evidente: l’Italia dei felici anni ’60, del boom economico si sta trasformando in quella di un popolo di consumatori, di fedeli servitori delle multinazionali e del conformismo. Mediatico e non. L’ultima provocazione gaberiana ci fornisce una visione dall’alto e l’ipotetico Dio che ci guarda, ovviamente non si riconosce con la sua umanità e preferisce affondarla. Dalle pagine dense di passione e disincanto di Pasolini e nel mezzo delle parole chiare e sempre politicamente scorrette del duo Luporini/Gaber, si scorge la cifra di una drammaturgia puntuale ed espressiva. Una sorta di lezione aperta al pubblico. Un trionfo delle profezie del passato proiettate nelle coscienze dei più giovani, con una scena che simbolicamente è rappresentata da un muro. Fondale imperscrutabile e monolitico. Quello dell’ Italia che non riesce più ad ascoltare la voce di chi esorta al cambiamento e all’utopia possibile. Quella di un popolo chiuso e abbrutito nei suoi bisogni imposti dall’alto.
Un’Italia attuale e tecnocratica, terribilmente simile a quella descritta dagli autori più di trent’anni fa. Claudio Gioè si rivela, per chi lo scoprisse solo adesso, attore di grande sensibilità e talento. Neri Marcorè conferma la sua duttile abilità, senza però riuscire a far dimenticare la dinoccolata follia di Giorgio Gaber. Istrionico e pulsante di vita propria e forse impareggiabile. Lo Gnu Quartet impreziosisce e sottolinea con garbo ma senza strafare. La drammaturgia di Giorgio Gallione mette in scena con compostezza, in una sorta di classicismo formale. Il ping-pong fra i due attori è cadenzato con geometrica precisione e alla lunga con un eccesso di prevedibilità. La domanda alla fine dello spettacolo, che per altro possiede il pregio della brevità, è una sola: quanta della rabbia incandescente dei tre autori riuscirà a scalfire l’animo dei giovani che andranno a vedere l’eroe della telefonia mobile e fissa e delle esilaranti imitazioni? Non è dato saperlo ma, se il beneficio del dubbio è concesso, una risposta si può tentare. In un mondo fin troppo standardizzato, in cui comportamenti e scelte sono già precostituite, lo spettacolo, anche il più rigorosamente di denuncia, dovrebbe emozionare ed imporsi con la forza dello scandalo. Sovvertire le leggi di una gravità innaturale e spingerci verso una palingenesi che ci permetta di ripensare la Storia e tutti i presupposti del nostro vivere civile. “Eretici Corsari”, nella sua correttezza professorale, ci fa assistere ad una bella lezione, virtuosa e impeccabile ma priva di calore autentico. E di quello, al freddo delle nostre esistenze, avremmo bisogno. Altrimenti quel muro rimarrà sempre là. Impossibile da scalfire.