Teatro Brancaccio. Christian De Sica: dal cinepanettone a Cinecittà. Recensione

ROMA – Verve, classe e autoironia per il mattatore Christian De Sica nel suo omaggio ad un pezzo di storia del cinema e costume italiano. 

Broadway forse non lo sa ancora ma ci invidia un grande mattatore da palcoscenico. Probabilmente (e ci auguriamo solo parzialmente) incastrato nell’immaginario internazionale della sua grande figura paterna, Christian De Sica non rappresenta solo un’importante memoria storica vivente di uno spaccato interessantissimo del cinema e costume italiano, ma un artista poliedrico che dal passato e dalla lunga esperienza vissuta – oltre che da un’ineccepibile tecnica e presenza scenica – riesce da solo a trasformare una buona idea teatrale in uno show completo nel quale ci si immedesima, si interagisce, ci si emoziona, si ride, si riflette, si ricorda, ma soprattutto si respira in un solo fiato il suo assoluto e camaleontico carisma.

E’ quanto succede in CINECITTA’, spettacolo scritto insieme a Riccardo Cassini, Marco Mattolini e Giampiero Solari ed in scena fino al 13 aprile al Teatro Brancaccio di Roma. Complici uno dei palchi più belli della Capitale, un’affiatatissima orchestra diretta dal Maestro Marco Tiso (con musiche originali da lui stesso arrangiate), un corpo di ballo coreografato dal sempre creativo Franco Miseria ed un trio di talentuosi attori-cantanti-comici – Daniela Terreri, Daniele Antonini e Alessio Schiavo – in totale sincronia tra loro, lo spettacolo è – a sorpresa – quanto di più raffinato e ben costruito ci si possa aspettare in questo periodo in una produzione tutta Made in Italy.

 

Autoreferenziale al punto giusto – anche se certi siparietti dedicati ai cinepanettoni che tristemente (per gli amanti del cinema dal sorriso intelligente) gli hanno conferito la maggiore popolarità nazionale si potevano evitare – e soprattutto autoironico, Christian sul palcoscenico ricostruito del famoso Teatro 5 racconta la storia di Cinecittà, ma soprattutto la sua esperienza negli studios – da bambino-testimone dei ciak di Rossellini sul set del giovane genitore interprete, a comparsa nei film corali; dai traumi dei provini che vedono “prostituire” un aspirante attore in molteplici ruoli (spesso anche non congeniali alla propria personalità psico-fisica) pur di ottenere il lavoro, all’esperienza di regista “vendicatore”, nel quale il passaggio dall’altra parte della macchina da presa è una conquista ma anche una forte responsabilità che quotidianamente deve combattere con imprevedibili indici di incasso e consenso al botteghino. 

 

Condito da succulenti aneddoti su alcuni dei più noti divi hollywoodiani – dal “papa” Anthony Quinn ed il suo corteo di finti cardinali, rissosi dopo l’annullamento della busta paga quotidiana per non aver girato una scena del film “Le scarpe del pescatore” causa manifestazione sindacale a San Pietro,   allo spudorato corteggiamento di Frank Sinatra a Raffaella Carrà fuori dal set; dai primissimi ciak di una Sofia Scicolone (non ancora Loren) non affatto considerati da un regista incompetente, fino agli spassosi racconti del “meccanico” di scena della biga di Ben Hur e della vespa di Audrey Hepburn in “Vacanze romane”: realtà e finzione vanno a braccetto – tra gag e voci fuori campo (bravo l’imitatore di Fellini!) per quasi due ore di  intrattenimento nel quale De Sica dà il meglio di sé forse proprio cantando. Nel repertorio prescelto non solo il classico “Frankie” – il cui swing alla maniera desichiana molti avranno avuto modo di apprezzare anni fa in “Parlami di me” – ma anche brani di Zizie Jeanmarie, Alberto Rabagliati e Alberto Sordi, suo padrino a tutti gli effetti, a cui Christian peraltro dedica un commovente momento dello show. 

 

Ma forse la parte più originale e sentita  di questo “Cinecittà” è proprio quella inedita ed intimamente vissuta insieme al padre Vittorio: nei ricordi da bambino, negli episodi sul set, ma soprattutto nel sogno di far conoscere al mondo – magari proprio attraverso una produzione cinematografica internazionale – particolari inediti di alcune straordinarie imprese del padre del neorealismo. E’ il caso del film La porta del Cielo, girato all’interno dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura durante l’occupazione nazista di Roma la cui lavorazione servì a nascondere numerosi ebrei e perseguitati politici, con il consenso dell’abate e di un giovane monsignor Montini (non ancora papa Paolo VI) di cui Christian ha recentemente parlato anche nel suo volume autobiografico Figlio di papà, ma che ora – proprio attraverso la sua emozionante capacità affabulatoria, ci trasmette un sentito e più che mai vivo legame intimo familiare, forse dovuto, forse cercato, ma piacevolmente spiazzante.

 

Per quanto raffreddatissimo e febbricitante in scena (il freddo di mezza stagione ha colpito anche lui l’altra sera) il nostro anchor man ha dato prova del suo grande talento come se nulla fosse (a riprova della sua indiscutibile professionalità) ma ha avuto ed ha il merito di avere scelto un giusto spettacolo e di non esserselo costruito totalmente su misura, lasciando proprio al suo fruitore spazio per un’immaginazione storica che rivive proprio in virtù del suo completo e accattivante piglio artistico.

Peccato solo averci salutato con la raccomandazione di rivederci al prossimo film di Natale: ma perché non puntare invece ad Hollywood o ad un musical nella storica 42nd street? 

 

E

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