Intervista a Micaela Esdra: “La madre raffigurata da Bernhard è dentro di noi”

“Alla meta” di Thomas Bernhard  è al Palladium dal 16 al 23 dicembre. La sua protagonista Micaela Esdra ci  illumina sulle profondità del dramma.

ROMA – Micaela Esdra, enfant prodige del teatro e del doppiaggio italiano nei primi anni Sessanta, è oggi una delle maggiori interpreti italiane. In teatro ha lavorato con registi come Giorgio Strehler, Luchino Visconti, Luca Ronconi, Antonio Calenda, Massimo Castri, Guido De Monticelli. Nell’ambito del doppiaggio ha prestato la sua voce a numerosissime attrici, tra cui Sandra Bullock e Kim Basinger. Dal 16 al 23 dicembre torna in scena al Teatro Palladium di Roma come protagonista di Alla meta di Thomas Bernhard, regia di Walter Pagliaro, ripresa di uno spettacolo che ha avuto successo negli ultimi anni. 

D. Cosa la attrae del ruolo di questa madre così lontana dalla visione comune della maternità? 

M. E. Sono rimasta subito affascinata da questo personaggio della madre. Quando lo leggi, all’inizio, ti agghiaccia, lo percepisci solo come grottesco, per tutto quello che dice. Poi, però, capisci che ciascuna di noi donne, se è onesta intellettualmente, può riconoscervisi.
È un personaggio moderno: tutte, tutte noi, nel rapporto con un uomo, con i figli, con la vita, con quello che desideriamo, nel rapporto con la convenienza, con l’interesse, abbiamo tratti simili a questa madre. È un personaggio che finisce per far sorridere spesso, ma noi sorridiamo quando rimuoviamo qualcosa che ci fa paura.

D. Che ruolo gioca la dialettica, in Thomas Bernhard, ma in particolare in quest’opera e nel suo personaggio?
M. E. La parola è importantissima. Questa donna è nata in un circo e ha trascorso buona parte della sua vita in povertà. Conosce il proprietario di una fonderia, un uomo molto ricco, molto sprovveduto, che a lei fa ribrezzo. Lo circuisce, lo sposa. Questo matrimonio, in linea con tutte le metafore di Ibsen o di Schnitzler, fa nascere un bambino malato del quale lei desidera la morte. In effetti muore. L’autore lascia supporre addirittura che la madre lo abbia soffocato, per eliminare una creatura che rappresenta il frutto del suo interesse. Questa donna trascorre il resto della vita con l’altra figlia che le nasce. Nel corso del dramma afferma: “Per noi donne non c’è scampo”. 

D. Una visione cruda?

M. E. Bernhard è un autore contro la famiglia, contro la maternità, è audace, rivoluzionario. Rari hanno il coraggio di dire che spesso la madre divora i propri figli.
La protagonista vive desiderando la morte del marito, la morte del figlio, nello stretto legame con questa figlia che lei non stima e che è tutto il suo contrario: somiglia piuttosto al padre, è mite, remissiva. La madre, invece, non rispetta nulla che non sia volontà, forza, lotta nella vita.
Quando per la donna si avvicina ormai la morte, arriverà dentro la casa un giovane scrittore di teatro. Quest’uomo, con le sue parole, le dimostrerà che forse nella vita, dando meno importanza all’interesse e più ai sogni, alla realizzazione di ciò che si desidera nel cuore, si può essere più felici. Lei capisce alla fine che forse avrebbe raccolto altri frutti, se non avesse vissuto nell’odio.

D. Al di là dell’evoluzione del personaggio nel corso dello spettacolo. Lei, come interprete, ha trovato la possibilità di rilevare alcuni lati di umanità in questa madre?

M. E. Non la ritengo una donna crudele, ma una donna esplicita. Un nemico che si mostra palesemente va comunque stimato. Lei stessa dice: “Ero ridotta allo stremo quando quell’uomo, con la sua fonderia, venne a sedersi al mio tavolo. Non sapevo dove sbattere la testa”.
Chiunque sia costretto nella vita a tirare avanti, senza alcuna possibilità, senza cultura, credo sia giustificato per quello che fa. Questa donna non è cattiva. È una belva e non ritengo che le belve siano crudeli: è più malvagio un uomo colto, che fa del male, sapendo di farlo. Il marito, la figlia sono persone divorate, ma che si lasciano anche divorare.

D. È stato complicato incarnare una tale donna o ha trovato degli spunti, delle affinità che l’hanno aiutata?
M. E. Ho conosciuto molte donne simili a questa madre. Io non ho studiato recitazione in un’accademia: è stata mia madre che mi ha spinto da bambina. Aveva dei propri desideri, ma anche per lei la vita non era stata semplice: si era sposata e alla fine faceva la casalinga, ma mi ha esortato a lottare, a impegnarmi. Lei, per esempio, era una donna per nulla favorevole alla maternità e ha insegnato alle sue figlie che la maternità può essere una “fregatura”. Per certi versi questo personaggio mi ha ricordato mia madre, che non c’è più da molti anni. Anche se lei non arrivava a questi eccessi, che sono grotteschi e sono delle metafore di Bernhard, era una donna che andava su questa strada. Oggi sia io, sia i miei fratelli, nonostante lei sia stata così energica, se vogliamo anche dura, sentiamo molto la sua mancanza, perché era un polo di vitalità, di forza, di lotta. Quindi non ho sentito questo ruolo poi così lontano.

D. Da un punto di vista tecnico come ha affrontato il personaggio? Come sostiene l’onda dialettica di questa donna?

M. E. È un personaggio difficile, molto molto faticoso. Ormai però il nostro lavoro si fa anche per cimento, per vedere fino a che punto puoi arrivare, dove ti devi fermare, dove sei in un dato momento del tuo percorso professionale. Sono tempi veramente terribili ed è duro portare in scena autori di un certo peso, di un certo concetto, ma è un tale arricchimento…

D. Considera quindi questo spettacolo una prova d’attrice?

M. E. Ormai sono talmente pochi i riconoscimenti che le istituzioni danno agli attori desiderosi di portare avanti un discorso e un percorso più alti… Noi svolgiamo questo lavoro per pura soddisfazione. Fare la pubblicità della tale macchina o del tale prodotto ti porta denaro, popolarità, mentre sono già alcuni anni che io conduco la mia attività per esercizio professionale: per vedere quello che posso o non posso fare e quello che non arriverò mai a fare. Sono cresciuta alla scuola di grandissimi attori: li ho visti con i miei occhi e ascoltati con le mie orecchie.
Ho cominciato a doppiare a otto anni e a recitare a dodici e mi sono trovata a tu per tu con Rina Morelli, Paolo Stoppa, Salvo Randone, Gianni Santuccio (a cui la nostra associazione culturale, che produce questo spettacolo, è dedicata). Non erano attori ma violini, strumenti musicali. Quel tipo di bravura lì non si riuscirà mai a raggiungere, anche perché le istituzioni erano più dalla loro parte. E anche quando non c’erano le istituzioni, c’era un rispetto. Eduardo riusciva a suscitare rispetto con il suo lavoro: oggi per chi studia Ibsen, Shakespeare o Kleist questo rispetto e questa considerazione non ci sono più. Anzi ti dicono che tutti questi autori insieme a Euripide, Sofocle… appartengono al passato, mentre in realtà sono semplici da capire e sono alla base della nostra esistenza, della nostra gioia, della nostra disperazione.

D. E sulla regia? Lei collabora da anni con un regista raffinato come Walter Pagliaro.

M. E. Pagliaro porta avanti ancora la fedeltà alla parola, alla recitazione. Lui crede nel rispetto degli attori, di quello che sentono e pensano.  All’inizio si fa un “tavolino” lungo: ci si siede a studiare il testo, ciascuno dice la sua e si confrontano le varie possibilità e i differenti percorsi.
La preparazione di Pagliaro deriva anche dall’essere stato vicino per tanti anni a un artista come Giorgio Strehler, che era un grande uomo di teatro e insegnava l’arte della scena in tutte le sue forme: insegnava agli attori, ai registi, ai datori luci, al costumista, allo scenografo, a tutti. Avere un maestro come Giorgio Strehler significa avere tutto in questo lavoro. 

D. Su cosa ha voluto insistere nell’allestimento di Alla meta?

M. E. Quello che Walter ha voluto sottolineare in questo spettacolo, per esempio, è la purezza dell’arte circense, che viene dalla natura, dall’istinto, dalla povertà. Una purezza che si scontra con la costruzione di questo scrittore di teatro. Il giovane è un ragazzo di talento, ha fatto dei sacrifici, è andato contro la sua famiglia per diventare drammaturgo, ma ha quel tanto di fasullo che viene dall’intellettualismo.  È molto importante, nel nostro lavoro, il contrasto che c’è fra l’arte intesa come purezza della natura, della forza dell’uomo, con la pur grande, intelligente, coltissima preparazione dei giovani che studiano, ma hanno quel tanto di imparaticcio che viene dall’intellettualismo. Questo discorso ha voluto affrontarlo perché è valido anche oggi.
C’è chi è artista, anche senza saperlo, e chi vuole fare l’artista. 

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