Giorgio Cosulich. “Driving in Addis”, come cambia una città

Intervista al fotografo siciliano sul suo ultimo reportage nella capitale dell’Etiopia

“Mio padre è stato per me una grande fonte di ispirazione, come persona e come fotografo”

(Giorgio Cosulich)

Reportage e fotogiornalismo

Il reportage (il termine proviene dal giornalismo francese in cui viene privilegiata la testimonianza diretta) è uno dei generi ‘principe’ della scrittura giornalistica e del fotogiornalismo. Tale fenomeno cominciò a imporsi verso le fine dell’Ottocento quando i reporter inglesi John Thomson e Adolph  Smith immortalarono  i quartieri più poveri e degradati di Londra. Il movimento acquistò grande importanza negli anni ’30 del secolo successivo negli Stati Uniti: qui, complice la siccità che colpì il middle-west durante la Grande Depressione, acquisì una profonda dimensione sociale grazie ad alcuni grandi fotografi come Gordon Parks, Dorothea Lange e Walker Evans che descrissero con straordinario realismo la povertà di decine di migliaia di agricoltori americani. Nei decenni successivi altri grandi artisti dell’immagine come Robert Frank, Lewis Hine, James Agee e Margaret Bourk-White, raccontarono guerre, disastri oppure le profonde trasformazioni della società e del mondo del lavoro. Uno dei più significativi protagonisti del reportage contemporaneo è il fotografo brasiliano Sebastiao Salgado. Negli ultimi trent’anni ha testimoniato con un profondo senso artistico e realistico le molteplici condizioni dell’uomo nelle più disparate zone del mondo. Anche in Italia il fotogiornalismo ha avuto un periodo di grande creatività con personaggi come Gianni Berengo Gardin, Letizia Battaglia, Mario Dondero, Tano D’Amico, Paolo Pellegrin, Gianfranco Moroldo, Ferdinando Scianna e Mario De Biase. In questo contesto di fotogiornalisti di grande valore si è inserito negli ultimi vent’anni Giorgio Cosulich, 44 anni, figlio d’arte che dal 1995 ha iniziato una brillante carriera che lo ha visto viaggiare e realizzare reportage in Bosnia, Kosovo, Pakistan, vari paesi dell’Africa, Stati Uniti e Brasile.  Ha realizzato lavori su commissione e di corporate per Esso, Shell, 2BCom, Saatchi&Saatchi, The British Council, Ripa Arte Hotel, Alitalia, Qantas, Pumex, Cathay Pacific, Ethiopian Airlines, Let’sBonus, Nike, FAO.

Il lavoro di Giorgio Cosulich è stato esposto in Italia e all’estero. Ha partecipato a numerosi festival quali Festival Internazionale di Fotografia di Roma (2003, 2005, 2008), Festival Internazionale di Foiano (2004), RomaDocFest (2006, Menzione speciale), SalinaDocFest (2007), PordenoneFilmFest (2007), Ivrea Foto Festival (2011), Castelnuovo Fotografia (2014). Le sue fotografie sono distribuite in tutto il mondo dall’agenzia Getty Images.

Sul sito www.drivinginaddis.com si possono ammirare alcune fotografie del suo ultimo reportage in Etiopia. Il complesso della sua opera si può vedere nel sito www.giorgiocosulich.it

Abbiamo incontrato Giorgio Cosulich in questi giorni mentre sta preparando un volume sull’ultimo grande reportage su Addis Abeba.

Come è nata l’idea di realizzare il reportage “Driving in Addis” ?

Sono sempre stato legato all’Etiopia ed in particolare ad Addis Abeba. Per vari motivi, non ultimo perché mio padre l’aveva frequentata a lungo nel 1966, realizzando un reportage fotografico per la prestigiosa rivista, oggi defunta, Vie Nuove. Quelle immagini mi hanno accompagnato durante tutta l’infanzia e l’adolescenza. Mio padre (Guido Cosulich, fotoreporter e direttore della fotografia per il cinema italiano e brasiliano, ndr) è stato per me una grande fonte di ispirazione, come persona e come fotografo. Le sue immagini mi hanno sempre suggerito un punto di vista molto particolare sulle cose e mi è sempre piaciuto seguire in qualche modo le sue tracce.

Addis però ha rappresentato anche il punto di partenza del mio libro Africa Express, quando nel 2002 sono partito da quella stazione per compiere in dieci anni diecimila chilometri a bordo dei treni africani. Sono tornato più volte ad Addis Abeba, ma durante una visita agli inizi del 2014 l’ho trovata in uno stato di totale rivoluzione urbanistica, disseminata di cantieri. Un grande fermento era nell’aria. Un giorno, percorrendo la città in taxi sono stato colpito dalla prospettiva particolare di cui godevo in quel momento sul palcoscenico della strada. Ho scattato qualche immagine utilizzando il finestrino del taxi come cornice nera per inquadrare la città.

Tornato in Italia ne ho parlato con il mio editore, Claudio Corrivetti della Postcart, con il quale avevo già pubblicato Africa Express. L’idea è di raccontare il cambiamento epocale che Addis Abeba sta vivendo, come ciò stia influenzando lo stile di vita dell’intero paese, come i cantieri edili condizionino la routine delle persone e come queste si adattino perfettamente. Raccontare tutto questo seduto dentro ad un taxi, viaggiando per la città. Così è partito il progetto che terminerà con la pubblicazione di un libro a Natale 2015.

Con le tue foto stai raccontando il grande cambiamento in atto ad Addis Abeba, che impressione hai avuto della profonda trasformazione di questa grande metropoli africana?

L’impatto è notevole. Mi rendo conto di fotografare la storia, qualcosa che sarà radicalmente trasformato. L’intera città sembra messa a soqquadro come in un unico grande cantiere in cui tutti devono trovare lo spazio ed il modo di convivere. Sono sorti palazzi e grattacieli d’ogni tipo che frastagliano lo skyline di una città che assomiglia sempre di più ad una metropoli occidentale. La storia urbanistica di Addis Abeba, dalla sua fondazione nel 1886 ad oggi, non è mai cambiata molto, non così repentinamente. L’ultimo piano regolatore è del 1938, ad opera degli italiani, che durante la loro breve occupazione l’hanno trasformata in una città monumentale, con una pianta urbanistica funzionale agli spostamenti di imperatori ed eserciti, con alcuni boulevard molto ampi e di rappresentanza, solidi palazzi del potere e tutt’intorno una distesa di baracche. Fino a cinque anni fa la vegetazione era molto rigogliosa. In certi punti verdi della città, fitti come foreste, abitavano colonie di scimmie. Oggi il cemento sta letteralmente divorando ogni spazio di terra disponibile. Il prezzo delle case ha raggiunto gli standard europei. Una classica villetta monofamiliare, come tante ce n’erano un tempo ad Addis, oggi è in vendita sul mercato allo stesso prezzo di un grande appartamento in centro a Roma o Milano. Ma ciò che vale veramente non è la casa, ma la terra sulla quale essa è costruita. La villetta verrà demolita e al suo posto costruito un grattacielo o un centro commerciale o un condominio. Così tutte le vecchie case della città, alcune con rifiniture liberty in ferro battuto, vengono rase al suolo al suolo per fare spazio a nuove costruzioni più redditizie.

I lavori edili sono affidati a ditte cinesi che producono e forniscono tutto, dai bulloni, al cemento, alle ruspe, ad eccezione della manodopera che rimane locale. Il capo cantiere solitamente è cinese. Questo grande processo di rinnovamento e impiego di risorse, sta generando un’economia positiva che tende a crescere. E’ facile trovare lavoro come operaio in un cantiere. La paga è di circa 3 euro al giorno e ci saranno buone opportunità almeno fino al 2025, anno in cui sulla carta dovrebbero terminare i lavori. Il miraggio del lavoro sta richiamando dalle campagne molti giovani, che arrivano in cerca di un’occupazione. Sono giovani disposti a lavorare tutto il giorno e a dormire in fetide cucce dentro stamberghe di ultima categoria a 0,80 centesimi di euro per notte. L’apertura dei cantieri e la presenza di operai ha generato un indotto vastissimo nel quali in tanti trovano occasione di guadagno e di sussistenza. Per la prima volta sta nascendo una classe media, ma per i più poveri la situazione rischia di precipitare.

L’apertura di migliaia di condomini sta modificando la struttura della famiglia di Addis Abeba, in che modo? E a costo di quali conseguenze?

Negli ultimi dieci anni sono stati costruiti oltre 100 mila condomini. Ne sono programmati altri 200 mila entro il 2025. Questo è il trend e mi sembra che in qualche modo lo stiano rispettando, perché tornando a distanza di sei mesi sugli stessi luoghi ci si accorge di come la trasformazione sia stata veloce.

Addis tradizionalmente era una sorta di grande villaggio comune in cui convivevano nuclei familiari allargati, non necessariamente fatti di sole parentele, piuttosto di rapporti umani, in cui i più deboli in qualche modo erano accolti e aiutati. Sebbene regimi politici, guerre e povertà abbiano vessato gli etiopi, si può dire che nemmeno il più povero di tutti sarebbe mai morto di fame fino ad oggi, in molti lo avrebbero aiutato. 

Girando per la città, di tanto in tanto si incontrano ragazzi che reggono vassoi di cartone sui quali si possono trovare articoli di vario genere: accendini, fazzoletti, gomme da masticare, torce elettriche, batterie, adesivi, cacciaviti, molle. Oppure ci sono giovani che vendono numeri arretrati dell’Espresso di un paio di anni prima o guide della città degli anni sessanta. E’ quanto di meglio questa gioventù è riuscita in qualche modo a racimolare e a vendere in strada. E stai pur tranquillo che alla fine della giornata avranno venduto molte di quelle cose. Perché esiste ancora un senso di solidarietà diffuso, in cui ci si aiuta gli uni con gli altri. Dal punto di vista urbanistico questo genere di comunità è stata favorita dal tipo di insediamento prettamente tribale, con fitti agglomerati di baracche per stare vicini gli uni agli altri. Stare vicini aiuta a sopravvivere. In considerazione anche del fatto che nelle baracche non ci sono bollette della luce o del gas o un affitto da pagare. Spesso l’attività commerciale di sussistenza della famiglia si tiene davanti alla baracca, ad esempio servendo del caffè, tostando del grano, vendendo peperoncino, qualche cipolla, qualche patata, un po’ di aglio.

Il governo però, all’interno del suo piano di rinnovamento e ammodernamento, ha deciso di radere al suolo pian piano tutte le baracche per sostituirle con condomini di cemento da assegnare alla popolazione tramite lotteria sociale. Ciò comporterà sicuramente un vestito più moderno e dignitoso della città, ma al contempo smembrerà la famiglia allargata per trasformarla essenzialmente in una famiglia di tipo nucleare, ovvero madre, padre, figli. Ciò che oggi è il modello occidentale. Da ora in poi ognuno deve fare affidamento sulle proprie forze, non più sull’aiuto della comunità. Da ora in poi le famiglie sono costrette a produrre danaro per pagare le spese di casa.  In questo doloroso processo di ammodernamento della struttura sociale del Paese, i più deboli soccomberanno e i poveri rischiano di diventare indigenti. Oggi sono già in molti quelli che preferiscono continuare a vivere da qualche parte in baracca e affittare a qualcuno l’alloggio condominiale assegnato loro dallo Stato.

Sono in molti a sostenere, con una certa indignazione, che lo Stato sta cancellando la storia e le tradizioni del paese in nome della modernità.

 Il mondo del lavoro potrà rilanciare lo sviluppo sociale ed economico della città?

Addis Abeba non è una città produttiva, ma a consumo. Ovvero si consumano risorse, ma non se ne producono. Il paese non ha mai intrapreso un processo di industrializzazione ed oggi si trova ad ammodernarsi sul modello occidentale, senza però garantirsi un futuro industrializzato. Questo potrebbe creare un corto circuito alla fine del processo di ammodernamento, perché una volta terminati i cantieri che ne sarà di tutte queste migliaia di operai edili, alcuni dei quali specializzati, accorsi per lo più dalle campagne? Dovranno tornare indietro o lo Stato saprà garantirgli in qualche modo una continuità lavorativa? Questa è la grande domanda che tutti si pongono. Stanno nascendo le prime fabbriche legate alla produzione di materiale edile, qualcosa legato alla produzione alimentare, ma è ovvio che questo non può rappresentare una vera garanzia di produttività per il futuro. I più illuminati sostengono che Addis deve compiere uno sforzo e investire sullo sviluppo attraverso la creazione di servizi. E’ l’unico modo per invogliare aziende straniere a investire capitali in Etiopia. Un’azienda vuole questo genere di garanzie. Se ciò non si realizzerà in qualche modo Addis potrebbe rimanere una città che avrà da mostrare soltanto un bel vestito che con il tempo si sporcherà, si logorerà. 

Come mai la scelta del taxi per raccontare la città?

I tassisti sono come tanti Ciceroni che ti guidano dentro la città attraverso percorsi personali molto particolari. Il mio mi ha guidato sui luoghi della tradizione, ma anche del cambiamento, anche attraverso i propri ricordi.

Il taxi è un mezzo molto usato e molto diffuso. Per me rappresenta un modo privilegiato di muoversi dentro la città e allo stesso tempo uno schermo sul quale osservare lo scorrere della vita senza poter fermare l’attimo, senza poter scegliere da quale posizione. E’ un percorso obbligato, bisogna cogliere i momenti così come vengono. 

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