Il suo “American Sniper”, è stato battuto da “Birdman”, ma rimane un film sincero e toccante
“Le opinioni sono come le palle. Ognuno ha le sue”
(Clint Eastwood)
Una ‘trionfale’ sconfitta
All’edizione 2015 degli Oscar è stato senza dubbio il grande sconfitto. Il suo film era candidato a sei statuette, tra cui quello per la miglior regia e per il miglior film. “American Sniper”, dolorosa e tragica storia del cecchino Chris Kyle, è stato battuto da “Birdman” del messicano Alejandro Inarritu. Clint Eastwood, 84 anni, può essere comunque soddisfatto per il fatto che a parte un Oscar per il montaggio sonoro, la più grande vittoria del suo film siano i quasi 400 milioni di dollari che ha incassato in tutto il mondo, di cui ben 19 solo in Italia.
Le critiche invece sono state a volte piuttosto pesanti. Il regista Michael Moore si è espresso in questo modo: “Un film troppo stupido per darsi la pena di recensirlo”. Un giudizio a mio avviso totalmente ridicolo e privo di lucidità analitica. Raccontando la storia di Chris Kyle, il regista californiano ha voluto porre l’accento su alcuni aspetti fondamentali della natura profonda degli americani: il rapporto con le armi, il patriottismo e la violenza. Nelle intenzioni di Eastwood non c’era il bisogno di fare l’ennesimo film antimilitarista e pacifista. L’obiettivo del cineasta è stato quello di descrivere come un qualsiasi conflitto possa abbrutire e degradare gli esseri umani e come la morte possa arrivare anche nelle circostanze più assurde. “American Sniper” è un film sincero, intenso e profondo.
Un cineasta in bilico tra Ford e Hemingway
Nella straordinaria carriera di Clint Eastwood due persone sono state decisive e determinanti per il suo enorme successo. Il primo fu Sergio Leone che nel 1963, ancora poco conosciuto, lo scelse come protagonista per l’epocale western “Per un pugno di dollari”. Il secondo regista, Don Siegel, fece di lui nel 1971 il duro poliziotto Henry Callaghan, che diede il via ad una fortunata serie di film di grande successo di pubblico.
Prima dell’incontro con Sergio Leone la carriera del giovane Eastwood era iniziata in sordina a metà degli anni ’50, con delle piccole partecipazioni a “b-movie” come “La vendetta del mostro”, “Francis in the navy”, “Lady Godiva” e “Tarantula”. Al cinema alternava anche a serie tv come “La pattuglia della strada”, “Navy Log”, “Mavericks” e il western “Rawhide” che tra il 1959 e il 1966 gli diede una certa notorietà negli Stati Uniti.
Dopo il successo internazionale grazie alla ‘trilogia del dollaro’ di Sergio Leone, Clint Eastwood cercò di crearsi un personaggio diverso dall’eroe con il sigaro e il sombrero. Il geniale e reazionario regista Don Siegel disegnò per il lui l’odioso Henry “la carogna” che fu perfetto: era quello che Eastwood andava cercando dopo essere stato ‘scoperto’ dal cineasta italiano. Nel 1971 insieme all’enorme successo nel film di Don Siegel, Clint Eastwood debuttò dietro la macchina da presa con “Brivido nella notte”, in cui lui stesso interpretava uno speaker radiofonico in un thriller drammatico.
Nel 1973 conobbe il giovane sceneggiatore Michael Cimino. Tra i due nacque un rapporto di amicizia e stima al punto che Eastwood lo volle come regista per il film “Una calibro venti per lo specialista”, pellicola che ebbe un notevole successo di pubblico nel 1974 è segnò il debutto dietro la macchina da presa del talentuoso e visionario genio di Michael Cimino, futuro autore di capolavori come “Il Cacciatore” e “I Cancelli del cielo”. Altro film importante per Clint Eastwood come attore fu “Fuga da Alcatraz” diretto dall’amico Don Siegel. Negli anni ’80 Eastwood come attore non brillò particolarmente. Si cimentò con scarsi risultanti in commedie, un tipo di film non adatto alla sua figura e alla sua cifra stilistica. Come regista girò “Honkytonk Man” (1982) che segnò il punto di svolta nella sua carriera sia come regista che come attore. Superati i 50 anni, Eastwood si rese conto che il suo personaggio di duro, incorruttibile e spavaldo non era più credibile. Si concentrò allora su storie intimiste, su personaggi perdenti e figure ai margini della società. Questo progressivo cambiamento artistico e stilistico, unito alla completa maturità come uomo, fece sì che Eastwood girasse il suo secondo grande film come regista nel 1992. “Gli spietati”, western atipico e realista con tre grandissimi attori come Gene Hackman, Morgan Freeman e Richard Harris, fu un enorme successo al botteghino (160 milioni di dollari) e ottenne quattro premi Oscar tra cui quelli per il miglior film e per la miglior regia. Eastwood entrava nel Pantheon dei grandi del cinema americano. Dopo aver girato con Kevin Kostner “Un mondo perfetto” (1993), film che proseguiva la nuova linea stilistica nel raccontare l’altra faccia dell’America: quella dei losers e degli emarginati, Clint Eastwood stupì nuovamente il pubblico e la critica con “I ponti di Madison County” (1995), un’intensa storia d’amore tra un fotografo e una casalinga del middle west. In questo film Clint Eastwood ci offre forse la sua migliore interpretazione della sua carriera grazie anche alla presenza della straordinaria Meryl Streep. Con il progressivo invecchiamento ‘esplode’ la completa maturità di Clint Eastwood come regista e come narratore di un’America cinica, brutale, violenta in cui spesso il male trionfa sul bene. “Mystic River” (2003), forse la sua migliore prova come cineasta e il commovente “Million dollar baby “(2004) con cui vince il suo secondo Oscar, fanno di Eastwood uno degli artisti più importanti e significativi della Hollywood del XXI secolo. Dopo questi grandi successi, l’anziano regista partendo dalla guerra, affronta alcune tematiche centrali per il suo modo di intendere il cinema: il coraggio, l’eroismo, la sconfitta e la propaganda. Con i sorprendenti “Flags of our fathers” (2006) e soprattutto “Letters from Iwo Jima” (2007), Eastwood descrive uno dei momenti più difficili e sofferti della storia recente degli Stati Uniti: la terribile e sanguinosa guerra contro il Giappone, combattuta ferocemente tra il 1941 e il 1945. In queste due opere emerge il grande amore del regista per due figure ‘immortali’ della cultura americana: John Ford e Enerst Hemingway. Nel maestro del western Eastwood ha preso l’asciuttezza dello stile, l’amore sofferto per il suo Paese e l’aspetto visivo. Per il celebre scrittore ha ereditato ‘il codice’: nella vita bisogna battersi, non è importante vincere, occorre almeno provare, mettersi in gioco perché nella più grande sconfitta c’è anche la più esaltante vittoria.