ROMA – Nella Guida dei ristoranti d’Italia 2014 del Gambero Rosso da qualche giorno figura, unica a Roma, una vecchia trattoria nei pressi del Pantheon. Un riconoscimento che distingue il locale da tutti gli altri ristoranti acchiappa-turisti, che a Roma sono la maggior parte, e che premia ( con i rituali Tre Gamberi) una cucina semplice ma buona.
L’iniziativa è lodevole, ma è la classica goccia nel mare. Nonostante la cucina italiana abbia una certa fama (seconda a quella francese che, per tutti gli esperti del ramo, viene a sua volta dopo quella cinese) è pur sempre una cucina popolare, fondata su piatti contadini. Quella romana , poi, è fatta soprattutto di scarti. Nella Roma papalina, prima del 20 settembre 1870 e della breccia di Porta Pia ad opera dei bersaglieri di Garibaldi con conseguente fine del potere temporale del papato, i pezzi pregiati della bestia macellata: il filetto, le bistecche, i lombi per il bollito o per gli arrosti, finivano tutti in Vaticano, sulla tavola del papa, dei cardinali, dei monsignori e via via giù per li rami di tutta la Curia. Al popolo rimanevano gli scarti dai quali con sapienza tutta femminile, le donne romane, facendo di necessità virtù, si industriarono a tirar fuori dei manicaretti, anche dalle interiora. Ma questo succedeva duecento anni fa.
Oggi i ristoranti romani pur di conquistare la clientela forestiera, hanno snaturato la tradizionale cucina romana , riducendo le pietanze a pochi piatti facili da sfornare e sicuri che piacciano alla maggioranza dei clienti, appunto per lo più forestieri.
E’ una constatazione che salta agli occhi. Non c’è ristorante di Trastevere, trattoria di Borgo, spaghetteria di Prati, “vino e cucina” di Trastevere che non abbia in menù sempre gli stessi piatti. E non parliamo delle pizze presunte napoletane (il pizzaiolo nella maggior dei casi è arabo) che, nonostante siano chiamate con decine di nomi diversi, sono tutte uguali dalla margherita in poi, cambia solo il numero degli ingredienti, il sapore è lo stesso.
Perché fra le capitali europee Roma è quella con il minor numero di ristoranti stranieri? La risposta è semplice: proprio a causa dello storico equivoco sulla ricchezza della cucina romana.
Quale che siano le ragioni è innegabile che a Roma i ristoranti stranieri non abbiano mai avuto molta fortuna. L’unica concessione all’esotico furono i primi ristoranti cinesi che agli inizi degli Anni Ottanta cominciarono quella che si rivelò “l’irresistibile conquista di Roma”. Pagando in contanti, i cinesi hanno comprato una dopo l’altra molte vecchie trattorie del centro storico, quelle rimaste in mano ad anziane coppie di romani, lei in cucina, lui ai tavoli, ma non più in grado di reggere alla fatica perché abbandonate da figli interessati ad altri lavori. E così da un giorno all’altro il “Vino e cucina” gestito dalle tante Sora Rosa era diventato “La muraglia cinese” o “Il Bastoncino d’oro”.
Oggi questa considerazione è fin troppo banale, ma in quegli anni chi voleva alternare i bucatini all’amatriciana con il pollo alle mandorle doveva scoprire un ristorante cinese uno dopo l’altro, ed era un gioco intrigante, uno dei pochi offerti dalla Roma a tavola. Oggi molti osti cinesi sono nati a Roma e si perso il gusto sadico di sentire nomi familiari pronunciati con qualche consonante fuori posto. Come accadeva con le tre erre di Ferrarelle, l’acqua minerale che per prima rifornì i ristoranti cinesi, costringendo le camerierine con gli occhi obliqui a farsi capire dai clienti romani con il loro farfugliato “fellalelle”.
Cinesi a parte, la Roma ghiottona è cambiata di molto, anche agli occhi dei forestieri che hanno occasione di toccare con mano. Loro forse non ci fanno sempre caso, ma noi si, e constatiamo che nei ristoranti di media levatura i primi piatti sono esclusivamente di pasta di vari tipi ma con gli stessi i condimenti: carbonara, amatriciana, alla grigia, pomodoro e basilico, cacio e pepe, lasagne, talvolta i cannelloni. Un oste sincero spiega: “Per forza, sono i piatti che i clienti chiedono di più”. Verrebbe di rispondere: il cuoco non cucina altro, e il cliente deve accontentarsi. E’ la solita storia, vale pure per il cinema e per i programmi televisivi: seguono il gusto del pubblico o piuttosto lo determinano? Che fine hanno fatto le minestre della nostra infanzia, pasta e patate, pasta e fagioli, riso e indivia, riso e piselli, i capellini in brodo? Sono piatti spariti dal menù delle trattorie romane, anche di quelle che si vantano di servire gli “antichi sapori”. Passando ai secondi, la musica non cambia, sono sempre gli stessi: piatto ricorrente la carne o il pesce alla griglia, che è come dire che la cucina è chiusa, c’è solo il fuoco acceso nel camino. Poi gli arrosticini, sempre provenienti dalla griglia, come le bistecche, le lombate, le tagliate e i filetti. Qualcuno offre scaloppine al marsala, al vino o al limone, e poi le verdure grigliate (ma in cucina c’è ancora un cuoco?). Se ti capita di trovare sulla carta un pollo alla romana con i peperoni, prendilo al volo, non ti succederà spesso.
Chi ha constatato con i propri occhi (e con le papille gustative) un epocale impoverimento delle tavole romane, potrebbe pensare che sia l’effetto della crisi economica: non è così perché nonostante la depressione a Roma i ristoranti come del resto gli alberghi, sono sempre pieni (di turisti stranieri). Ne è riprova il fenomeno del cosiddetto “tavolino selvaggio” che il Campidoglio stenta a combattere. E’ la legge di mercato: molti clienti, tanti tavolini, sui marciapiedi, in mezzo alla strada, nelle isole pedonali. Ne ha fatto le spese perfino piazza Santa Cecilia, che sarebbe un’oasi di silenzio nel caos di Trastevere se non fosse per il vicino ristorante con il suo mostruoso dehors e la vineria sempre affollata all’happy hour.
Quando scorre il menù delle trattorie romane il cliente forestiero forse è felice di tanta goduria mangereccia, ma non sa che cosa si è perso. Quella romana, come si è detto, è una cucina fatta di scarti con il cosiddetto “quinto quarto “ della bestia: la coda (alla vaccinara), la trippa (con la mentuccia), gli zampetti (di maiale al sugo), la lingua (salmistrata), la testina (d’abbacchio), il cervello (al burro, al tegamino), la coratella, le animelle, le interiora, il rognone, le regaglie (ottime per il sugo delle fettuccine), il picchiapò (spezzatino), il pinzimonio (per le cruditès). Tutte cose buonissime che nelle trattorie romane non trovi più perché i clienti forestieri, che sono spesso la maggioranza, non ne sospettano nemmeno l’esistenza . Però non mancano mai il tiramisù (dolce contadino nato nelle baite del Trentino), l’ananas (frutto che più esotico non potrebbe essere), la torta della nonna (una nonna industriale che produce e vende in tutt’Italia), tutte specialità romane, manco a dirlo!