Michael Jackson e l’uomo nero – racconto terzo

Negli anni sessanta l’America si caratterizzava per la recrudescenza delle discriminazioni razziali, negli Stati del sud il senatore George Wallace proponeva leggi penalizzanti gli afroamericani. Alle Olimpiadi di Città del Messico, nel 1968,  gli atleti di colore Tommie Smith e John Carlos, vincitori della gara dei 400 metri, durante la cerimonia di premiazione diedero vita a una delle più clamorose proteste della storia dei Giochi olimpici: sul podio scalzi, ascoltarono l’inno nazionale a capo chino, sollevando un pugno guantato di  nero, simbolo del movimento di liberazione che rifiutava la prassi nonviolenta di Martin Luther King, le “Black Panthers”.

Era un invito alla rivolta: la cronaca registrò nuovi tumulti razziali, scontri e vittime.  E in quel clima la “black music” non poteva che ritrovarsi ghettizzata. Ma nel mondo si sentiva anche un vento misterioso di cambiamento, con segnali troppo poco percettibili per essere compresi.

Fino al 1934 l’Apollo Theatre nel quartiere nero di Harlem, a nord di Manhattan,  accoglieva solo bianchi. L’arrivo di nuovi proprietari  consentì finalmente l’ingresso agli artisti di colore e presto divenne uno dei luoghi sacri del jazz di New York. Il pubblico dell’Apollo, a quel tempo,  era fatto di  scalmanati che potevano accoglierti con vere standing ovation oppure, se non gli piacevi,  tirarti dietro qualsiasi cosa. Nel 1968 Joe iscrisse i suoi figli a un concorso indetto da questo teatro sempre più prestigioso.

Michael che fino a quel momento aveva frequentato locali di secondo e terzo ordine tra Gary e Chicago, ai quali li accompagnava Joe con  un macilento furgone Volkswagen, era elettrizzato dallo sbarco nella Grande Mela. Aveva solo dieci anni, ma il desiderio di emergere era connaturato alla sua indole, all’ educazione, alla sensazione dolorosa sperimentata da piccolissimo di essere amato nella misura in cui  dimostrava di valere qualcosa. Le pretese paterne, l’essere oggetto di attenzioni pubbliche,  gli avevano istillato un desiderio di perfezione. Non era mai contento di sé:  sentiva in fondo  che lui e i fratelli, qualsiasi cosa avessero fatto, sarebbero rimasti neri. Senza esserne consapevole tutta la famiglia, a cominciare dal padre, anelava al successo come affrancamento da una schiavitù antichissima.

La sera della rassegna canora il pubblico dell’Apollo era in fermento. Avevano battuto le mani, fischiato, protestato senza pudore. Dopo l’esibizione dei Jackson 5, malgrado avessero interpretato con passione, seguì un silenzio inspiegabile. Una donna ruppe la suspence urlando:
– Wonderful little boy! – con chiaro riferimento al piccolo Jacko
Si scatenò il delirio: ci fu una stending ovation e i Jackson 5 stravinsero. Corroborati dagli applausi, i fratelli Jackson,  tornarono eccitati nei loro camerini passando davanti ad una stanza con  la porta aperta:
–  Un trionfo! –   gridarono alla ballerina seduta davanti alla specchio, una bellona che mandava in visibilio gli spettatori  Da quella volta  a Gary, quando fu obbligato ad assistere all’amplesso di una spogliarellista,  Michael provava grande imbarazzo verso le signore, le evitava, ma questa così alta, così elegante, con capelli biondi lunghissimi e ciglia alate, lo intrigava. Restò ammirato al punto che si fermò.
Lei gli sorrise:
Entra, che guardi?
Il bambino si fece avanti intimidito.
Vuoi? –  la donna gli porse un cioccolatino
Michael scrollò il capo.
Me li regalano gli ammiratori… – e nel dir questo la professionista, inaspettatamente, con la mano destra si tolse la parrucca d’oro e la depose sulla toeletta. La sua testa rasa e oblunga brillò alla luce. Jacko restò di stucco. L’altra impassibile scostò le spalline dell’abito tirando via dal reggiseno due coppe di gommapiuma, il suo torso apparve nudo,  piatto e virile. Un uomo! pensò Michael con orrore. Indietreggiò verso l’uscita  e scappò. Il suo sgomento era tale  che il transessuale scoppiò in una risata che risuonò a lungo.

***

Michael stava imparando presto in fatto di sesso, a volte in maniera traumatica, ciò che altri bambini digeriscono a poco a poco. La cosa gli creava profonda insicurezza. L’esempio di suo padre, che tradiva la madre senza nasconderlo ai figli,  lo faceva soffrire. Katherine, pur sospettando l’infedeltà del marito, non ne aveva mai avuto certezza e i ragazzi cercarono di nasconderle la realtà. Tornati a Gary, freschi della vittoria conseguita, Michael aveva ascoltato Joe parlare con  sua madre, mentirle  come sempre sui luoghi in cui era stato e su quello che aveva fatto. In cuor suo lo disprezzava e per quanti sforzi suo padre facesse per spianare ai figli la carriera non gli furono mai riconoscenti.

Il successo riscosso all’Apollo Theatre aveva infatti partorito, grazie al padre, un contratto con la Motown Company,  casa discografica fondata agli inizi degli anni sessanta da Berry Gordy,  compositore afroamericano. La Motown era un’ impresa gestita da neri che si proponeva di diffondere la “black music”. Per la stipula i piccoli Jackson sarebbero dovuti andare a Los Angeles. La sera prima della partenza erano elettrizzati. La madre si occupò di fare le valigie.
–   A che ora vi chiamo domani? – chiese Katherine
–    Alle cinque… –  rispose il marito
–    Così presto?
–     Non possiamo rischiare di non arrivare in tempo.
–    Conoscete già le condizioni della Motown?
–    Non nel dettaglio, ma il fatto stesso che ci prenda è una grande fortuna…  ha lanciato i Tempations, Stevie Wonder, Diana Ross…
Se dovete alzarvi presto andate dormite  – disse sua madre
Non sono stanco – fece Michael
Non strapazzarti! – lo redarguì suo padre –  Vuoi perdere la voce?!

***

Al buio nella sua cameretta Michael era sotto le coperte da un po’ quando vide stagliarsi, nel chiarore della finestra aperta, una figura alta e minacciosa. Il prato esterno  la notte si popolava sempre di fantasmi immaginari, ma questo era autentico. Michael balzò a sedere e lanciò un urlo. Il mostro si catapultò nella stanza , urlò anche lui.
Aiuto! – strillò il bambino
L’uomo nero afferrò Michael e lo scrollò sgridandolo:
Quante volte ti devo dire che non devi dormire con la finestra aperta?!  Può entrare qualcuno in casa…
Stranamente la voce sembrava quella di suo padre ma il piccolo stentava a riaversi. Scoppiò a piangere. Joe accese la luce.
Adesso sono sicuro che imparerai a chiudere la finestra!
Joe aveva fatto apposta a spaventarlo, perché lo choc gli fosse di lezione. Altra staffilata indelebile. Da quella notte, e per molti anni, Michael Jackson ebbe  incubi continui: sognava che un uomo nero venisse a rapirlo.

***

Joe Jackson aveva finalmente stipulato il primo contratto importante. Mister Gordy era l’imprenditore grazie al quale la musica nera si era diffusa su vasta scala, l’afroamericano che faceva gli interessi di quelli come lui in un decennio in cui il razzismo penalizzava gli artisti di colore. La soddisfazione si leggeva sul viso sia di Joe che di Berry quando, posta l’ultima firma, si strinsero la mano.
Aspettate un momento…  voglio presentarvi una signora – disse mister Gordy e chiese alla segretaria di introdurla.
Di li a poco apparve un’afroamericana dai lineamenti raffinati,  chioma voluminosa, sorriso invitante, stretta in un abito dai colori sgargianti.
–    Diana Ross   –   la presentò Gordy
–   Ciao ragazzi, come siete carini – disse Diana,  poi rivolta a Michael – soprattutto tu…
I cinque tacevano intimiditi.
Mi hanno parlato spesso di voi… voglio vedervi alla prova…. Sono sicura che faremo cose straordinarie…
***

I Jackson 5 avevano appena messo piede sul gradino di una scala che li avrebbe portati in alto. Nell’autunno del 1969 veniva pubblicato dalla Motown il primo singolo “ I want you back”: a ottobre era solo novantesimo in classifica, a gennaio del 1970, detronizzati notissimi artisti,  era già sulla vetta. Grazie a questa canzone arrivarono numerose le apparizioni televisive.

I Jackson 5 – I wont you back

(continua)                                                   

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