Michael Jackson e il fan dodicenne – racconto diciassettesimo

Nei momenti difficili Michael si rivolgeva a sua madre, l’unica persona con la quale riusciva a parlare. Per il resto i componenti della sua famiglia non gli trasmettevano sicurezza, meno che mai suo padre, meno che mai sua sorella la Toya che, soprattutto negli ultimi anni, spalleggiata da suo marito, gli aveva dato non pochi grattacapi.     Quel giorno Michael era di nuovo al telefono con Katherine per dibattere una questione privata:

Mamma, ti rendi conto che la Toya ha dichiarato a un reporter che l’unica mia occupazione è il naso? Gli ho fatto sapere attraverso l’avvocato che se avesse sollevato nel suo libro una qualsiasi insinuazione su molestie sessuali a minori non l’avrebbe passata liscia…
Tua sorella non avrebbe mai potuto inventarsi una cosa simile…
Non ha forse scritto di essere stata molestata da papà?
Ancora non posso credere che abbia potuto mettere in giro una simile calunnia… che sia colpa di Rebbie ?
Qualcuno – disse Michael – del suo entourage ha fatto circolare la notizia che io avrei dato dodici milioni di dollari a lei per farla tacere, inaudito! Soldi, soldi, soldi… sono la nostra maledizione!
In famiglia erano in disaccordo  su molte cose,  ma la causa principale dei loro dispiaceri era, in quel periodo,  “Growing Up In The Jackson Family”, “Crescere nella famiglia Jackson” la scandalosa biografia che la Toya  aveva pubblicato nel 1991.
–   Purtroppo – disse Katherine con voce dolente –  sono sempre più convinta che La Toya  nell’ottantanove si sia sposata soprattutto per allontanarsi da noi…

Al riparo da quei dissapori, tra le mura di  Neverland,  la vita scorreva idilliaca, almeno in apparenza. Lontano dalle guerre familiari e adulte, in quell’isola verde e silenziosa oltre alla musica di Michael Jackson, risuonavano le voci argentine dei ragazzini che da sempre erano i  suoi più grandi amici.  Il primo che si ricordi era stato Emmanuel Levis, piccola star delle serie televisiva Webster che Jacko aveva conosciuto nel 1983;  poi era venuto Jimmy Safechuck, di dieci anni, col quale aveva lavorato  in uno spot della Pepsi Cola, ai cui genitori,  malgrado le obiezioni del manager Frank Di Leo,  Michael aveva regalato nientemeno che una Rolls Royce. Ultimo in ordine di tempo e il più famoso Macaulay Culkin,  protagonista di “Mamma ho perso l’aereo”, col quale divideva emozioni profonde ed esperienze perché, come lui  bambino prodigio, stava perdendo l’infanzia a causa del successo e della sovraesposizione mediatica. Michael si confidava con Macauley con un dialogo alla pari ed era sorprendente la loro intesa.

Il re del pop d’abitudine attraversava la tenuta di Neverland al volante di un’automobile bassa, simile a un go-kart. Nonostante la limousine con autista, aveva preso la patente e gli piaceva guidare in città, soprattutto con utilitarie,  per quel senso di autonomia e affrancamento, lusso che lui conosceva poco e che lo inebriava quando, camuffato a dovere,  girava da solo. Non voleva far prendere i taxi ai suoi ospiti e spesso era Michael a riaccompagnarli a casa. Rimpiangeva soltanto la rarità  delle occasioni in cui non era seguito da un membro dello staff, che se lo proteggeva  lo limitava. Come non accadde invece quella mattina di maggio del 1992,  quando percorrendo in macchina il lungomare di Santa Monica canticchiava felice di non aver nessuno accanto, di non essere riconosciuto grazie al  cappellaccio e agli occhiali scuri, felice dell’anonimato e della libertà.

A un tratto la sua automobile  emise un rumore insolito, sussultò e si bloccò. “Accidenti!” disse il cantante, scese e  aprì il cofano,  fissando sgomento  il groviglio di fili del motore. Si grattò il capo pensando di dover affittare una macchina e fu preso dal panico. In quell’istante un uomo, che lo aveva osservato con stupore, sì avvicinò e gli chiese:
Siete proprio Michael Jackson?
Lui lo guardò preoccupato. Scosse la testa per negarlo. Non fiatò.
Lo siete! Vi riconosco anche con il trucco.
Jacko sorrise preoccupato, portando un dito alle labbra per implorare riservatezza.
Tranquillo… se volete vi scorto all’autonoleggio di David Schwarz, a Ocean avenue…
Dopo un attimo di esitazione la pop star si fece coraggio:
Davvero? Siete gentile…
Per voi questo e altro…

Infilarono un rettilineo dal quale si vedeva in lontananza il mare,  altissime palme, giostre, bianche casette a ridosso della spiaggia a quell’ora quasi deserta. Quando i due arrivarono all’autonoleggio e David Schwartz, dopo un attimo di incredulità,  capì chi era il cliente che aveva di fronte,  esclamò pieno di gioia:
–  Guarda che cosa doveva capitarmi oggi… vi affitto la macchina migliore a un prezzo specialissimo… lasciatemi telefonare per dirlo  a mia moglie!
Signor Schwarz , non voglio si formi un capannello … – protestò Jacko.
Manterremo il segreto… –  l’uomo tirò a sè il telefono sulla scrivania componendo il numero –  June vieni qui, c’è una  sorpresa!  – poi passò la cornetta a Michael pregandolo di dire qualcosa.
Il cantante, che in privato era una persona timidissima, esordì con imbarazzo:
Salve sono Michael Jackson…
State scherzando?
No signora Schwarz…
Oddio è proprio la vostra voce! Bisogna che venga… porto con me Jordie… mio figlio… del mio ex marito… ha dodici anni ed è un vostro grandissimo fan, si muove come voi, mette il guanto come voi… ci aspettate?
Va bene, vi aspetto.
Erano circostanze che Michael  cercava di evitare, non gli piaceva essere osservato, soppesato con curiosità e meraviglia. Si chiedeva quanto sarebbe durata quella scocciatura quando entrò di corsa un ragazzino smilzo, dall’aria monella, che si fermò davanti a lui estatico.
Jordie sei tu? – gli chiese Jacko sorridendo
L’altro accennò di sì con il capo. Non parlava e sua madre gli mise una mano sulla spalla:
Hai perso la lingua? – poi guardando la pop star negli occhi –  Gli fate un grande effetto signor Jackson!
In macchina ho una copia di “Dancing the Dream” – disse Michael  al bambino alludendo al libro fotografico pubblicato subito dopo Moonwalk – se mi accompagni te lo regalo.
Grazie!  –  Jordie fece un salto di gioia –  ti avevo già scritto, ti avevo chiesto un autografo, non ti ricordi?
La pop star divertita esclamò:
Bisogna rimediare, dammi il numero di telefono e ti inviterò a Neverland.
Jacko prese la sua rubrica minuscola e scrisse:
Jordie Schwarz…
No, non Schwarz –   rettificò sua madre – Jordie Chandler… è il figlio del mio ex marito…
Ok Chandler…
Il ragazzino lo abbracciò e comunicò il numero con voce squillante e soddisfatta.

***

In quel periodo uscì il video di “In the closet”, terzo singolo dell’album “Dangerous”,  la cui regia era di Michael con Herb Ritts. Jacko era fiero che vi partecipasse una stupenda rappresentante degli afroamericani,  modella tra le più note al mondo, Naomi Campbell, fiero che la voce femminile, quella che aveva sostituito Madonna, uscita dall’iniziale progetto di duettare con lui,  fosse della principessa Stephanie di Monaco: lo faceva sentire regale,  lo avvicinava a Dio. Il re del pop era convinto di essere amato solo nella misura in cui dava prova di grandezza e si impegnava per salire all’Olimpo, molla con cui cercava inutilmente di colmare un vuoto affettivo. Amava rivedersi più e più volte nei suoi video ma, per quanto si fosse sforzato di essere seduttivo e tutti lo ritenessero tale, non capiva perché le fan volessero saltargli addosso: si criticava e si guardava con distacco. Anche il fatto che “In the closet” sarebbe stato in seguito premiato con un disco d’oro per aver venduto nei soli States mezzo milione di copie, non gli avrebbe dato la gioia dovuta.

Michael Jackson – In the closet

Quando la canzone terminò   si sdraiò sul divano,  guardò il soffitto. Il 27 giugno 1992 sarebbe iniziato il “Dangerous tour” che lo impegnava molto più di un anno. Ricordò quando piccolissimo veniva caricato spaventato controvoglia sugli aerei per andare a esibirsi;  quando stringeva la mano della tata, la signora  Rose Fine,  che lo rassicurava promettendo : “L’aereo non cadrà, ho controllato e non è salita nessuna suora”.  Quella paura puerile non era del tutto scomparsa,  tanto che adesso, se c’era una suora a bordo, non si sentiva sicuro. Rifletté su come ogni nostra ora fosse un azzardo: oggi ci siamo,  domani non più. Solo l’infanzia era un eden dove la morte non aveva posto, un eden che non aveva mai goduto. Si ricordò di Jordan Chandler, il fan dodicenne che aveva incontrato all’autonoleggio di Santa Monica e, prima di partire, decise di salutarlo quasi compisse un rito scaramantico. Sull’agenda, sopra il tavolo basso,  trovò il numero di telefono e  lo compose.  Rispose la madre che accolse il cantante emozionata e subito gli passò il figlio:
Jordie – disse Michael – mi chiedevo se potevo mandarti a prendere con la tua mamma e la tua sorellina per vedere Neverland prima che io parta…
Dove vai?
In tournée, nel week end potresti fare un giro qui sul  Katherine  train…
Katherine train?
Mia madre si chiama Katherine, come il trenino che attraversa il mio ranch..
Questo week end purtroppo devo andare da mio padre,  si chiama Evan e fa il dentista…
Sarà per un’altra volta…
Mi piacerebbe però, chiedo ai miei di cambiare programma…
No! Potrebbero restarci male…
Mio padre ti ammira molto…   mi ha raccontato che voleva lavorare nel cinema e fare lo sceneggiatore…
Capisco, ma promettimi di venire a trovarmi solo nei momenti in cui i tuoi non hanno problemi…
Promesso!

Iniziò così, casualmente, l’amicizia tra Michael Jackson, Jordan Chandler, sua madre June e suo padre Evan. Così come un periodo controverso e drammatico per la vita del cantante e di tutti i protagonisti di questa dolorosissima avventura, dalla quale ciascuno sarebbe stato segnato per sempre.  “Michael Jackson, una fiaba nera” vuole narrare la storia di un uomo e non di un divo, ricomponendo nei limiti del possibile le tessere di un puzzle tuttora avvolto nel mistero:  solo comprendendo  frammenti  dell’essere umano che Michael Jackson è stato, al di là della maschera pubblica, lo si può amare. Oggi questo ragazzo nero originario di un umile centro operaio dell’Indiana  non c’è più,   non può avere alcuna voce in capitolo sulle illazioni sollevate – che, se avessero avuto fondamento,  avrebbero inflitto la tragica e mortale tortura dell’amore sconfessato –  per questo sul suo rapporto con i bambini lasciamogli la parola per primo.

Intervista di  Oprah Winfrey a Michael Jackson, febbraio 1993

 

(continua)

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