Michael Jackson e il suo nido diverso – racconto ventinovesimo

Quella mattina Prince Michael e sua sorella Paris viaggiavano in automobile da Neverland a Los Angeles per un controllo medico.

Il maschietto, seduto sul sedile posteriore, giocava col pulsante che manovrava i finestrini: stavano posteggiando quando, schiacciandolo, i vetri oscurati della limousine si abbassarono. Incredulo nel trovarsi davanti ad uno scatto insperato, un fotografo del tabloid britannico “News of the world”,  che  tallonava la vettura, immortalò i fratelli a volto scoperto. Non era quasi mai accaduto, si trattava di uno scoop grandioso. Il paparazzo sussultò di gioia e corse al giornale.  Al  contrario Michael si sentì distrutto quando fu avvisato che foto dei  figli a viso nudo giravano in rete. Il panico si impossessò di lui. Ossessionato dall’idea che i bambini potessero essere rapiti, in preda all’ansia,  malgrado fosse ormai  notte, per calmarsi si attaccò al telefono e chiamò il rabbino Shmuley Boteach, scrittore di best seller  e personaggio televisivo, che aveva conosciuto nel 1999 e aveva eletto ora a guida spirituale.
Shmuley, sono Michael.
Come mai a quest’ora?
E successa una cosa terribile!
Hanno fotografato Prince e Paris in faccia… le foto sono finite nel web… pensi che sia possibile  toglierle?
Non lo so…  non agitarti, non accadrà niente di irreparabile…
Aiutami Shmuley…
Farò il possibile.
Quando richiusero Shmuley sospirò pensando che Michael stava proteggendo quei poveri bambini dalle chiacchiere nate intorno ai dubbi sulla sua paternità biologica. Non voleva che nessuno passasse in esame quei volti innocenti e lo capiva, ma le mascherate alle quali li sottoponeva, non erano una difesa, rifletteva, semmai creavano problemi. Inutile cercare di spiegarlo al re del pop, non lo comprendeva. Il giorno dopo, nei fatti, malgrado il cantante avesse  spedito la lettera di un avvocato,  le foto rimasero on line.

Il rabbino aveva otto anni meno di Michael, a Jacko era stato presentato da Uri Geller,  un conoscente comune, che sapendo come la star attraversasse un momento delicato, si convinse che un incontro fosse molto utile a entrambi:  l’artista, pensava Geller, avrebbe  beneficiato finalmente di un punto di riferimento e Shmuley del rapporto con  un individuo straordinario. I due  familiarizzarono fino a diventare amici e nell’estate del duemila Shmuley sbarcò con la moglie e le figlie  nella reggia del re del del pop. Il giorno in cui varcò il cancello di Neverland con la famiglia, Shmuley Boteach  fu letteralmente rapito  da quel luogo incantato: Michael li aspettava nel parco, insieme a Prince e a Paris, circondato da un elefante, da due daini, un lama,  un cavallo con calesse, uno stuolo di addestratori, camerieri e valletti in tenuta. Perfetto sovrano con i suoi principini, il re del pop li condusse a vedere il suo ranch dotato di un parco sterminato, di un luna park, di uno zoo con rettilario dove Michael stesso mostrò,  tenendolo fermo con delle pinze,  un velenosissimo serpente a sonagli.

La prima cosa che colpì Shmuley fu come i piccoli fossero bene educati, affettuosissimi con il padre, socievoli con gli ospiti, apparentemente felici, ma il rabbino ebbe uno shock quando chiese ai bambini della loro mamma e si sentì rispondere: “Noi non abbiamo una mamma”.  Pensò a Grace,   governante raffinata, intelligente, energica ma, malgrado li ritenesse fortunati di quell’amorevole  sostituta, sospirò sconfortato . Shmuley considerava orribile che Debbie Rowe non avesse alcun contatto con le creature che aveva messo al mondo e un giorno riuscì a dirlo anche a Michael. Dopo avere guardato mite il rabbino,  Jacko non si scompose e rispose candido:
Shmuley, tu non capisci il mio rapporto con Debbie, a parte il fatto che per Prince e Paris è meglio non frequentare una madre che non conoscono.
Il tempo passa velocemente – rispose Shnuley – una volta cresciuti i tuoi figli potrebbero giudicare severamente il comportamento di entrambi,  magari avrà creato loro problemi inimmaginabili…
Michael infastidito cambiò subito argomento. Smuley notò come, in privato, la star fosse timida,  a disagio e preoccupata. Anche se non era vero quello che i giornali scandalistici andavano raccontando,  e cioè che Jacko fosse un nuovo Howard Hughes terrorizzato dai batteri: i bambini infatti toccavano tutti i giocattoli, anche quelli caduti a terra,  senza che nessuno corresse a disinfettarli.  Per ristabilire un clima cordiale il rabbino fece allora  un apprezzamento:
Sei migliore delle tue leggende , non hai l’ossessione dei germi.
Come hai visto non temo nemmeno i serpenti –  ammise Michael
Scoppiarono in una risata liberatoria e si occuparono del passatempo preferito del re del pop, quello di guardare video.  Prima però il cantante volle specificare:
Io sono un tiro al bersaglio… per “They don’t care about us” ho dovuto scusarmi pubblicamente, cambiare le parole perché mi accusavano di antisemitismo…
Ennesima bufala – convenne Shmuley.
Senza renderlo noto alla stampa, infatti avevano   visitato insieme  la Calebah Schule, importante sinagoga di New York, mentre era in corso una festività ebraica.

“They don’t care about us” era il quinto singolo dell’album “History: past, present and future”.  Il testo della canzone aveva suscitato una controversia a causa di alcune parole contenute in esso:    “Jew me, sue me, everybody do me  /  Kick me, kike me, don’t you black or white me”.   La parola “kike” in inglese è  usata come termine dispregiativo per indicare gli appartenenti alle fede ebraica.   La seconda parte della canzone non fu eseguita nell’ HYPERLINK “http://it.wikipedia.org/wiki/HIStory_World_Tour” \o “HIStory World Tour” HIStory World Tour ed  il brano originale venne rieditato in tutte le sue versioni per censurare le parole Jew me e kike me, sostituite da colpi di tamburo. Michael Jackson chiarì:  “La mia intenzione era quella di dire no ad ogni forma di razzismo.”

Michael Jackson – They Don’t Care About Us

***                                                                              

Shmuley Boteach entrò in confidenza con Michael Jackson al punto da illudersi che gli affidasse l’ anima e questo lo fece sentire speciale. Jacko si era avvicinato a lui   con lo spirito con cui si va dallo psicoanalista: per avere sostegno morale,  affettivo, per debellare la droga e con lei la  fragilità emotiva che lo accompagnava dal 1993.  Il rabbino divenne per un lungo periodo un reale punto di riferimento per la star, Michael a volte pendeva dalle sue labbra. Anche se non sempre il medico è più forte del paziente, sebbene Shmuley ebbe un ascendente su Michael e lo guidò nel lavoro, tanto che il giornalista anglo-pakistano Martin Bashir, noto per aver intervistato per la BBC lady Diana, ricorse a lui per un contatto con il re del pop. La segretaria di Bashir spiegò a Boteach che il famoso reporter voleva fare un documentario su Jacko, seguendone la vita  quotidiana.
Il rabbino chiamò il cantante preoccupato e gli disse:
Michael, non pensarci nemmeno… non sei ancora pronto per lo scrutinio… non ti serve aprirti alle telecamere per diventare più famoso… ti serve guarire e diventare più credibile…

Se il re del pop avesse seguito quel consiglio,  la sua vita avrebbe preso un’altra piega. Due anni dopo, invece, l’amico comune del rabbino e della star, quell’Uri Geller che li aveva messi in contattato,  convinse Michael a farsi intervistare da Martin Bashir.   Nel 2003  il giornalista si trasferì per otto mesi a Los Angeles per seguire la  vita pubblica e privata di Jackson.  Come il rabbino, Bashir rimase scioccato dal fatto che i figli di Jacko dichiarassero di non avere madre: che i primi due non la frequentassero e l’ultimo non ne conoscesse neppure l’ identità.  Senza contare la stranezza del velo sui volti!  Il re del pop sembrava premuroso verso la prole ma il suo nido, persino agli occhi dei più disincantati, appariva diverso e suscitava scandalo. Nacque “Living with Michael Jackson”, documentario molto discusso, che  generò alla star problemi serissimi, di immagine e legali, ma ebbe anche il merito di rivelare  scorci di intimità dell’artista, come questo nel quale nutre suo figlio Blanket.

Da “Living with Michael Jackson”, Michael nutre Blanket

Smuley Boteach e Martin Bushir incontrando la pop star avevano percepito la sua desolazione interiore:  Michael  sembrava affetto da una malattia dell’anima, una tristezza profonda,   un’ abulia perenne, sorta di stupore letargico, al quale contribuivano i farmaci di cui si imbottiva. Soltanto i figli erano in grado di farlo alzare e infondergli energia. Li amava più di se stesso. Il piccolo Blanket in particolare era stato  una ventata che dava senso a un’ esistenza –  incredibile ma vero –   vuota, infelice e noiosa.

Bubbles, lo scimpanzè che Jacko nel 1985 aveva salvato da un centro di esperimenti sugli animali e portato al ranch, aveva sentito quanto fossero importanti  i  piccoli Jackson.  Si era visto detronizzato:  un tempo lui e la pop star andavano in tournée,  dormivano nella stessa stanza,  guardavano video insieme, mangiavano allo stesso tavolo. Da quando c’erano  Prince, Paris e Blanket il  periodo d’oro era finito. Blanket, il più piccolo, il più carino, esigente,  ipersensibile,  scuro come una scimmietta, calamitava le attenzioni. Strillava ed era esaudito. Un giorno in cui, per l’ennesima volta, vide tutti correre in soccorso del bambino, Bubbles partì alla carica, saltò addosso a Blanket e lo buttò per terra. Soddisfatta si fermò in mezzo alla stanza. Le urla si levarono altissime.  Gridavano Grace,  Prince,  Paris. Michael agitò l’indice davanti ai suoi occhi. Bubbles si ritirò in un canto,  non parlò. Perché davano sempre addosso a lei? Si chiuse in se stessa.  Trascorsero alcuni giorni. L’episodio sembrava dimenticato. Ma la scimmia pedinava il rivale e voleva stabilire una volta per tutte il suo antico diritto. Un pomeriggio Blanket giocava con una pallina rossa,  Bubbles si adirò perché un tempo era sua e solo a lei era concesso toccarla.   Investì il bambino con il suo peso,  strillando,  certa che tutti, finalmente,  avrebbero capito. Ma non capirono. Scoprirono invece quanto fosse  vecchia, scorbutica e pericolosa. E poiché ora  pesava quasi 70 chili,  decisero di mandarla via. Fu condotta a Sylmar, un luogo protetto della California. Quando si rese conto che doveva restarci, ignara del fatto che Jacko l’avesse allontanata a malincuore, Bubbles cadde in depressione: vissuta tra gli umani, non conosceva altro. La sua nostalgia venne ritratta da più di una telecamera e fece il giro del mondo. Il legame tra lo scimpanzé e la pop star divenne leggendario. L’amicizia tra lei e Michael aveva ispirato nel 1988 lo scultore Jeff Koons che aveva fatto dei due una statua in porcellana a grandezza naturale. Nel 1991 quest’opera d’arte, lavorata a foglia d’oro, aveva raggiunto all’asta di Sotheby’s  la cifra record di 5,6 milioni di dollari.

 

(continua)

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