“La spadaccina” di Susanne Portmann

Continuiamo con la serie di racconti brevi, scritti da vari autori. Vi presentiamo la seconda e ultima parte del racconto-fiaba, ‘dal sapore prenatalizio’, “La spadaccina”, di Susanne Portmann:  che racconta di spade e cassetti ‘incantati’ …

La spadaccina di Susanne Portmann

Andava avanti sempre il cane. Camminarono nei boschi per molti giorni, bevendo l’acqua dei ruscelli e mangiando i panini e i biscotti che uscivano sempre freschi e croccanti dalla saccoccia. La sera la bimba tirava fuori il golfino rosso dallo zaino e si rannicchiava, abbracciata al cane, ai piedi delle grandi querce. Un pomeriggio il bosco diradò e dinanzi a loro si spianò un’ immensa altura in ascesa, senza colori di rocce ruzzolate giù dai monti, che s’innalzavano minacciosi sull’orizzonte asserragliando la vista nella neve, nella nebbia e nelle nuvole. Poco oltre, piedi penzoloni su un masso, sedeva una vecchia. Il cane le corse incontro e le fece le feste: “Ti stavo aspettando”, disse la vecchia rivolta alla bambina: “Sta notte farà freddo. Il golfino non basterà, ti ho portato il manto.” Le porse un fagotto di pelliccia; lei lo spiegò e indossò la mantella che le arrivava ai piedi. “Mettiti il cappuccio quando vai a dormire, il vento è insidioso, se ti s’infila nelle orecchie ti rende sorda con il suo ghiaccio volatile. E prendi anche il termos, ci saranno sempre le bevande calde. Ora vi saluto, seguite il falco, vi guiderà lui adesso.” Dopo di che la vecchia scomparve e un falco, apparso all’improvviso, lanciò un lungo grido, disegnando cerchi sulle le loro teste. Lo seguirono fino al tramonto, quando si pose tra i rami dell’ultimo alberello sul pendio della prima vetta. Si divisero i panini e il brodo caldo e si addormentarono, la bimba avvolta nella mantella, il cane rannicchiato contro la sua pancia e il falco vegliando dai rami. L’indomani affrontarono la parte più difficile del viaggio, tra rupi, neve, crepe, cime, strapiombi, gole, speroni e ghiacciai, condotti dal falco.

 

Per dormire il cane scavava buche profonde nella neve e la bambina ci si calava dentro, stringendoselo al petto e avvolgendo tutti e due nella mantella. La quinta notte si accamparono ai piedi dell’impietosa, inaggirabile, immensa parete verticale dell’ultima vetta. Soltanto da vicino si percepiva il gioco delle infinite lastre che la componevano, frastagliando la superfice in un bassorilievo astratto, non più spesso di due–tre pollici. Al risveglio, dopo avere fatto colazione con il cacao caldo e i biscotti allo zenzero, la bimba sistemò il termos nella saccoccia e ripiegò la mantella. Infilò ambedue in una crepa nella roccia. Poi aprì lo zainetto, vi fece saltare dentro il cane e se lo mise in spalla. Un osservatore munito di un buon binocolo, a guardare la scena da lontano, quella mattina avrebbe visto una macchietta rossa librarsi lentamente in alto sulla parete e poi sparire nelle nuvole che avvolgevano la vetta. La bimba la raggiunse verso mezzogiorno; il falco, sospeso alle sue spalle, le aveva indicato mossa dopo mossa dove infilare le mani e dove porre i piedi, e il cane, senza fiatare, si era stretto immobile nello zainetto. In cima lo liberò e sedettero tutti e tre in fila sulla cresta stretta, a guardare oltre il confine del regno: da lassù la catena rocciosa scivolava a valle senza intralci, in dossi sempre più dolci e verdi, prima di sciogliersi in una grande pianura, oltre la quale, lontano, scintillava il mare. Quella notte dormirono in collina, nella prima casetta che incontrarono. Era del falegname del paese che era corso loro incontro, non appena aveva scorto la macchia del golf rosso della bimba saltellare giù dalla vetta. Era riuscito anche lui nella scalata, anni prima, dacché nei 13 giorni e nelle 13 notti passati con la madre della bambina a montare l’armadio, aveva imparato il tragitto da seguire sulla parete. Lui, ai piedi di quella parete, si era lasciato dietro i suoi attrezzi e giunto nelle colline con quella splendida vista sul mare, aveva deciso di fare il viticoltore. Per arrivare al mare, bastava seguire i filari delle sue viti che si stendevano giù fino alla striscia di pini che cingeva la spiaggia. Vi giunsero l’indomani pomeriggio. La bimba si tolse scarpe, calzini e calzoni ed entrò nell’acqua della grande distesa, che le si muoveva dinanzi calma e rilucente nello spegnersi dell’ultima luce. Guardando, riconobbe le linee perlate che danzavano sulla superficie, le stesse che sempre aveva visto scorrere sulle ante e i sui cassetti dell’armadio di casa e che aveva ritrovato ricamate sul corpetto del suo primo abito da ragazza. Arrivarono due delfini e la potarono a fare il suo primo bagno nel mare e quando la ricondussero a riva, qui ad aspettarla c’erano tanti bambini del paese vicino – i primi bambini che lei incontrava. Le chiesero come si chiamava e lei senza esitare rispose: “Bianca”. La portarono al paese, dove sin dall’indomani andò a scuola – una vera scuola, con maestri, banchi, lavagne, palestra, mensa e tutto il resto. Ma la sera prima, gli abitanti del paese sul mare, festeggiarono il suo arrivo e il suo settimo compleanno. Lei indossò il suo vestito verde e da quel giorno vestì come tutte le bambine, con vestitini, gonne o pantaloni, come loro garba. Vestirsi al villaggio non era comunque un gran problema, dato che per gran parte dell’anno si girava tutti, se non semplicemente in costume, in pantaloncini corti e canotta e a piedi nudi.

Bianca per qualche anno visse ospite delle famiglie a turno, accolta da tutti come sorella dei suoi compagnetti. A scuola, la cosa che più le piaceva erano le lezioni di disegno e geometria. Un giorno in biblioteca scoprì tanti libri con fotografie di quadri. In uno c’erano quelli di un pittore, che dipingeva scacchiere di rettangoli bianchi, rossi, gialli e blu, racchiusi tra rette nere. In un altro c’erano quelli di un pittore che dipingeva pochi rettangoli per tela, senza contorni, sospesi su fondi evanescenti nei colori più tenui delle albe e dei tramonti, in cui lei riconobbe i colori dei vestiti fatti dalla madre. Le opere di ambedue i pittori l’affascinavano tantissimo, ma anche a sfogliare tutti i libri della biblioteca non riuscì a trovare un quadro che le restituisse il rifulgere delle linee animate tracciate sull’acqua al calare del sole e dei venti nello spegnersi dei colori del giorno – magia che lei conosceva per averla vista compiersi sull’armadio della sua infanzia. Che diventasse pittrice, in fondo era prevedibile, forse anche per quella strana distanza che portava nello sguardo e che i ragazzi innamorati di lei e che lei ricambiava, non riuscivano a misurare. La lasciavano puntuali dopo poco tempo, sconfitti in una sfida a cui si sentivano chiamati, senza che lei riuscisse a convincerli che la linea d’ombra nei suoi occhi non le impediva di amarli. Andò a studiare in una città a sud e passò un altro anno a vagabondare per i musei di città lontane. Poi tornò al paese sul mare e affittò la casa sul promontorio. La trasformò in un grande studio, dove insegnava ai bambini l’arte dell’estrazione e della miscela dei colori e dove visse con il cane e i cuccioli – bastardi più che mai – che le portava in casa ogni volta che a lei finiva una storia d’amore. Nel frattempo il falco continuava a fare la spola con la montagna e a condurre in riva al mare gli abitanti del regno, che venivano a sapere sempre più numerosi che oltre i monti non c’erano né nemici, né barbari, né invasori, né mostri, né diavoli, né streghe, né l’inferno. Si racconta che ogni volta che lo sguardo di un nuovo arrivato incontrava il mare, laggiù dietro la montagna, dalla grande muraglia del castello, si staccasse una pietra e rotolasse giù a valle.

E qui, aggiungendo magari l’incontro tra Bianca e un bel giovane che era riuscito a valicare la linea celata nei suoi occhi, con il solito “vissero felici e contenti” potrebbe concludersi questa storia, se non fosse che essa s’intitola “La spadaccina”. Tutto infatti andò bene finché un giorno, dalle vigne accorse il falegname–vignaiolo, il quale annaspando riuscì a mala pena a dire che l’esercito del regno stava superando la vetta: per mesi avevano costruito un’immensa impalcatura, praticabile da uomini e cavalli. Non fece in tempo a riferire che già una nuvola di polvere prese a ruzzolare giù sopra i vigneti e davanti agli abitanti radunati in spiaggia spuntarono sette cavalli con sette cavalieri corazzati a puntino in groppa. E prova a convincerli a scendere ed a togliersi quella ferraglia di dosso, a bere un buon bicchiere di vino e magari fare anche un bel bagno rinfrescante! E vaglielo a spiegare che per il loro paese non c’era problema, che a nessuno di loro interessava il regno dietro le montagne, ma anzi venissero pure tutti, che posto ce n’era a sufficienza, che il mondo prendeva giusto il via di qua dalle montagne e che si espandeva lungo il mare e oltre, fin dove chiunque volesse arrivare e vivere in santa pace, senza essere ossessionati da storie di invasori, nemici e mostri; che non c’era bisogno né di re, né di preti, né di eserciti, perché la gente sapeva vivere secondo la legge del buon senso e che la cattiveria e l’invidia dei pochi si cura con la gemma della resistenza formatasi al primo raggio negli occhi di ciascuno e custodita dai più. No, quei pezzi d’arnesi imbronciati in sella non stavano a sentire un bel niente e si limitarono a porgere, dandosi un sacco di arie, una pergamena vergata in onciale–proto–visigotico e infiocchettata di 29 sigilli, indirizzata “Al Capo in comando del posto”.

 

Il sindaco, cultore di lettere antiche, riuscì a decifrare il testo: “Con la presente il legittimo pretendente reclama a sé la sposa promessagli dal Re e dal padre. Che la donna torni dov’è nata com’è suo dovere assieme ai sette messaggeri del Re. Pena la condanna a morte, che chiunque potrà eseguire impunito, ovunque essa volga i passi, in nome di Dio, del Re, del padre e dello sposo.” Il sindaco, incerto sulla desinenza di due verbi, si grattò il capo e si voltò a guardare verso la casa sulle rocce, dove si erano affacciati Bianca e i bambini imbrattati di colori e coi pennelli in mano. Le portò la pergamena: “A quanto pare, abbiamo un problema”, le disse. Lei lesse. “No”, rispose, “è un problema soltanto mio.” Dopo di che si pulì le mani sul grembiule, se lo tolse ed andò giù in spiaggia dai cavalieri: “Andate a dire a chi sostiene che io gli appartenga di presentarsi qui all’alba con il fioretto. Se quest’uomo è chi dice essere, lo sfido a dimostrarmelo in duello.” Detto questo, disegnò un veloce cerchio a bracciate nell’aria e i cavalli se la diedero a gambe senza nulla potervi i cavalieri. “E come farai?”, le chiese il sindaco venendole alle spalle, “Da queste parti non s’è mica mai visto un fioretto.” Per tutta risposta, lei se ne tornò a casa e aiutò i bambini a lavare barattoli e pennelli e sistemare tutto come si deve dopo aver dipinto. La sera, nonostante facesse caldo, accese il fuoco nel cammino e andò a prendere il suo vecchio zainetto di camoscio dall’armadietto: dentro c’erano i vestiti e gli scarponcini che portava il giorno che partì dalla casa del padre e anche il vestitino verde acqua con le perline ricamate sul corpetto, portato finché non le strinse sulle tette spuntate. Prese il vestitino e sedette davanti al fuoco e, con un paio di forbicine, iniziò a tagliuzzare via le perline una ad una. Assieme ad ogni perlina le scivolava giù dagli occhi una lacrima che, toccando le fiamme all’unisono con una perla, sprigionava una scintilla sibilante. Fu questa la seconda volta da che si ricordava, che pianse. Tolta l’ultima perla e sciolta l’ultima lacrima, sprofondò nel sonno stesa davanti al cammino.

 

La svegliarono i cani leccandole la faccia, all’ora del lupo, troppo in qua per la notte, troppo in là per l’alba. Si destò, rovistò nelle ceneri e ne tirò fuori un magnifico fioretto. Poi andò in spiaggia e aspettò chi doveva arrivare. Ai primi bagliori sull’orizzonte, dai pini si staccò un cavallo sul quale riconobbe la sagoma del padre. Gli andò incontro: “Ciao papà”, gli disse, “bene vederti in buona salute. Di lunedì poi, chi l’avrebbe mai detto!” “Sono in servizio”, le rispose lui, “venuto ad ordinarti di desistere. Ho fatto il possibile per salvarti, ora sali che ce ne torniamo a casa. Sono vecchio, non posso più proteggerti, mi rimane poco tempo.” E lei: “A te rimarranno per sempre i sette anni che ho vissuto alla casa. Sai, sono tante le domande che avrei voluto rivolgerti in questi anni: se tu sapevi del mare, se l’hai visto dalla montagna, se ne sapeva la mamma o se lei sia stata solo la pedina di uno strattagemma della sua famiglia? Se io sia nata per un capriccio del tuo seme o se la mamma abbia favorito la mia nascita predisponendo tutto ad arte; o se abbiate escogitato il piano insieme, perché arrivassi io, perché io giungessi qui, perché cadesse il regno? In questi anni ho sempre cercato le risposte, ma ora che ti rivedo non m’importa di sapere, voglio soltanto continuare a vivere in compagnia della solitudine dei miei primi anni, che mai mi lascerà sola. Sappi che la mia infanzia, nascosta alla gente del regno, non è stata infelice; fino a che non ho saputo che il re mi negava il diritto ad avere un nome, io sono sempre stata “io” per me e per voi, anche senza nome. Ma ora, che per la gente di qui ho un nome, perdendolo, perderei me stessa: la mia infanzia diventerebbe la prigione di cui non ho memoria e la mia vita qui, si ridurrebbe a un ricordo di libertà. Allora tanto vale che io muoia subito! Oggi, per l’unica volta, farò uso dell’arte della famiglia che tu hai voluto io conoscessi, per difendere la dignità di vivere con il mio nome, che pur essendo lo stesso tuo e della famiglia, per mia storia, è soltanto mio. E allora! Dov’è quest’uomo che avresti scelto per me?” “Sono qui”, fece una voce alle sue spalle. Voltandosi vide una figura vestita a puntino per la sala scherma, pantalone e giubbotto bianchi, maschera sotto il braccio, guanti indossati e fioretto in mano: “Se ti rifiuti di venire, gara sia! Dov’è la tua attrezzatura?” “Io ho soltanto il fioretto”, rispose lei. “Non si può!”, esclamarono allora in coro i due uomini. E il giovanotto: “Faccio portare un’altra maschera e giubbotto.” “No!”, lo bloccò lei: “Non stiamo a fare sport. Toglietevi tutto e fatemi vedere se mio padre ha davvero eletto il soldato più valoroso del regno a suo successore!” Il giovane lanciò un’occhiata interrogativa al padre. “Chiede consiglio al comandante o al suocero?”, lo sfottè lei. Allora lui buttò via la maschera, si tolse i guanti e si liberò dal giubbotto. “No!”, gridò il padre. “E’ una follia!” “Già papà, questa la condivido, anzi, è pazzia! E solo tu sai come si è potuto arrivare a tanto.” “Non avevo scelta!” “Ti sbagli papà: io non ho avuto scelta, mentre tu potevi scegliere e anche lui, di fare un altro mestiere o di andarvene come hanno fatto tanti altri in questi anni. A voi niente poteva impedirlo, se non quello stupido senso dell’onore sul quale avete voluto giurare in nome di Dio, del re e della patria. Ma adesso, Monsieur, lei si batterà con me per il suo semplice onore di uomo: il mio nome è Bianca Valmonte, provate a togliermelo se ne avete il coraggio!” E fulminea fece il saluto e si piegò sulle ginocchia, alzò la sinistra e puntò la lama alla destra del giovanotto. A questi allora non rimase altro che fare il saluto.

Ciò che accadde su quella spiaggia nell’ora che seguì il levar del sole non è descrivibile, per quanto i figli dei figli dei figli dei figli degli abitanti del paese continuino a raccontarlo ai loro figli da decenni e decenni, con tutti i particolari su ogni attacco, parata e risposta, stoccata, flèche, allungo e via di seguito. Lei riportò due tagli sul braccio destro – all’esterno – e uno sulla gamba, sempre all’esterno; ferite che la dicono lunga sul suo antagonista, che comunque ne uscì molto peggio: in ginocchio a invocare frignando l’intervento del padre, quando lei infine gli piegò la lama sullo sterno, dopo avergli scaraventato il fioretto in acqua. “Ma come hai potuto pensare che io mi sarei piegata ad un simile codardo!”, sussurrò Bianca al padre, prima di svenire ed essere soccorsa dal medico del paese.

Quando molti giorni dopo si risvegliò, le raccontarono il resto: il padre aveva dichiarato “La rivoluzione”, spodestato re, principessa, nobiltà e clero, avocando a sé tutti i poteri in attesa delle prime elezioni a suffragio popolare. Perché esse si svolgessero senza incidenti, aveva dato ordine di aprire le frontiere e fatto trasportare sulla riva ogni spada e altra arma si scovasse nel regno oltre la montagna. Non ci fu alcuna resistenza; il re e la principessa anzi, giunsero sulla costa seduti in cima al primo carro di ferraglie assieme all’ultimo manipolo di seguaci. Questi costruirono una zattera smisurata e vi caricarono l’intero arsenale; e con questa il gruppetto si imbarcò, per andare a buttare il carico a largo o per portarselo appresso oltremare, non si sa. Su quella zattera partirono anche il vescovo e il promesso sposo; si dice che tra i due ci fosse del tenero (tra la principessa e il codardo, si intende). Il padre, proclamata la nuova repubblica, se ne tornò alla vecchia casa, miracolosamente scampata al disfacimento del castello. Rimase intatta nell’immenso cumulo di pietroni su cui si andavano appianando muraglia e castello. Giocarono interminabili partite di scacchi lui e il giardiniere, tanto a cucinare per loro due, ci pensava come sempre la vecchia domestica. Bianca, inaugurato il tunnel sotto la montagna, un giorno andò a trovarli con sua figlia. L’ebbe dal medico del paese, il primo che non si era impressionato per i suoi occhi, forse perché quell’ombra vi era sparita, o forse perché lui non ci faceva caso. Quando la rividero con la bambina, i tre anziani furono felicissimi. Ma dopo neanche un’oretta si distrassero, impazienti di tornare alle loro faccende, la domestica alle sue pentole e i due vecchi alla loro scacchiera. Prima di lasciare la casa, Bianca aprì un’ultima volta le ante dell’armadio e lo fece vedere a sua figlia. Ripresero il treno del pomeriggio. Continuò poi a dipingere sempre quadri grandi, con linee mosse su scacchiere ortogonali, coloratissimi.

I giornali, questa primavera, hanno riportato la notizia di un pescatore che, tirando su la rete a largo, vi ha trovato impigliata una spada molto antica. Immergendosi, i sommozzatori hanno rinvenuto sul fondo una caterva enorme di spade, lance, scudi, corazze, elmi, martelli, alabarde e via discorrendo. Gli esperti non riescono a spiegarsi come e perché vi si siano venuti a trovare: c’è chi parla di un’antica nave militare affondata, ma non ve n’è traccia; c’è chi parla dell’arsenale di una città sommersa dall’avanzare del mare, ma anche di questa non si scova pietra; c’è quest’illustre archeologo elvetico che parla di una civiltà marittima di La Tène e la solita trasmissione tv, che non cessa di giurare sui soliti alieni sbarcati dal solito altro pianeta. Io ho visto la foto di quella spada e tra le incrostazioni formate per lunga immersione nell’acqua, sul manico ho riconosciuto lo stemma: è identico a quello scolpito sulla pietra di un castello completamente diroccato, che degli amici mi hanno portato a visitare nel retroterra due anni fa, raccontandomi che una volta, da quella collina e da quel castello, una dinastia potente, per secoli ha tenuto in scacco la popolazione, nel terrore di feroci invasori inesistenti e nell’ignoranza dell’esistenza del mare. Ci sono tornato quest’estate con mio figlio e lui, infilandosi appresso al cane nei cunicoli sotto le cataste di pietre, è rispuntato con una strana tavoletta di legno in mano, intarsiata da sottilissime linee di madreperla. E mi ha detto: “Ma se questi qui non conoscevano il mare, com’è che usavano decorazioni di conchiglia?” E dopo che gli ho raccontato questa storia: “Ma un’arma però c’è rimasta: il fioretto di perle di Bianca! Dov’è? ” Io per fortuna, in cantina, ho conservato un vecchio ferro, che mi ha lasciato mio nonno, così siamo andati a cercarlo appena tornati a casa e, quando lo abbiamo trovato, mio figlio non mi ha dato pace finché non l’ho iscritto alla palestra di scherma, all’altro capo della città. Con tutto il traffico che c’è, mi tocca portarcelo due pomeriggi a settimana. Sabato prossimo farà la sua prima gara. Pare che sia portato – così almeno dice il suo maestro, che stranamente si chiama Tremamondo, proprio come il giardiniere del padre di Bianca.

Per gentile concessione:
© Susanne Portmann

Il prossimo racconto sarà presentato dopo le feste natalizie, “Buone feste a tutti”
Qualsiasi vostro commento è gradito … a presto.

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe