Il cartello stradale azzurro che indica con un doppio nome la località nella quale sto mettendo piede mi altera l’umore: “Varese – Vares”. Il pensiero va al linguaggio che si dice ‘nato per unire gli esseri umani’ e penso, contestualizzando questa iscrizione posta al confine del comune di Varese, che questo linguaggio invece è fatto per dividere, per allontanare, meglio dire per escludere chi non possiede questo patois.
Penso anche a quei film dove gli esploratori trovano, posti al confine di tenebrosi territori, dei teschi umani , come ammonimento a non oltrepassare quel terrificante limite; penso anche ad un sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo dove due lombardi cercano di carpire il segreto della provenienza di un strano ospite dicendo la parola ‘cadrega’ per vedere se lo straniero è di quelle terre o meno. Naturalmente quando scoprono che egli non conosce la parola, che in dialetto indica la sedia, sono mazzate per il ‘terrun’.
Non è che mi aspettassi molto di più. La mia amica Piera, che non vedevo da trent’anni, mi aveva avvertito scrivendo su face book di non farmi troppe illusioni: “qualche sopravvissuto c’è, tipo mio marito, e pochi altri. Qui a Varese è durissimo confrontarsi con la gente!!!! Ciao!”.
Nei giorni prima di partire avevo pensato, non senza qualche timore, al mio ritorno, dopo 15 anni di assenza, nei luoghi che hanno visto scorrere “mezzo cammin della mia vita”. Avevo pensato che ora ci sarei tornato con occhi nuovi e anche con la volontà di fare un reportage per descrivere, dal mio punto di vista, ovviamente, lo stato delle cose, vale a dire il milieu sociale di quello che ormai chiamo, da anni, ‘il profondo nord’. Ho usato il termine milieu, anziché la parola ‘ambiente’, perché il suo suono richiama meglio la realtà nella sua complessità, come prima ho usato il termine ‘patois’ al posto di ‘dialetto’ perché la parola francese deriva dall’antico patoier, che significa maneggiare goffamente, intendendo con questo evidenziare le differenze tra dialetti nobili come, ad esempio, il veneziano, il milanese, il siciliano e soprattutto il napoletano da altre maneggiate piuttosto goffamente, appunto.
I ‘dialetti’ italiani prerisorgimentali sono stati, se non scritti, parlati da tutti fino all’avvento della televisione di stato, e non sono state solo vere e proprie lingue, con tanto di verbalizzazione scritta, ma anche ispiratrici di quello che poteva essere l’italiano prima che Dante e i suoi epigoni ci consegnassero questa lingua manchevole di pathos. Infatti, spesso, per rendere meglio un’immagine/pensiero si utilizzano ancora modi di dire dialettali.
Questa sulle lingue potrebbe sembrare una deviazione di percorso se non fosse che proprio nei dialetti del nord la Lega ha trovato il proprio veicolo di propaganda e di esclusione: chi non parla il dialetto del Bossi deve andare “fòra di ball”. E non è che questo modo di pensare in dialetto esiste solo da quando c’è la Lega, c’era anche molto prima. La Lega Nord e i suoi alfieri hanno soltanto legittimato un tipo di pensiero verbale, vernacolare, che esclude a priori chi non lo possiede. La parola ‘terrun’ ha una componente semantica altamente razzista. Il ‘terrun’, è, per moltissimi lombardi, come il barbaro per i Greci, vale a dire ‘colui che balbetta strani suoni’. (la barbaro indicava nella Grecia sostanzialmente uno balbuziente e/o una persona incapace di parlare correttamente il greco). Il ‘terrun’ è subito un escluso e si individua immediatamente perché non parla in dialetto, e, per coloro che possiedono un quoziente di intelligenza leghista, è uno straniero da escludere o al più, furbescamente, da sfruttare come una bestia anche perché, come già diceva Aristotele dello schiavo, egli non appartiene al genere umano, visto che il modello di essere umano è l’uomo del nord, meglio se lombardo, meglio ancora se varesotto visto che il capostipite Bossi è di Varese, ed è bene salvaguardare la purezza della razza autoctona.
Ho parlato dei ‘terrun’ e non degli extracomunitari perché questi, per questo genere di persone, non sono nemmeno animali, sono utensili da utilizzare e poi da gettare quando si rompono.
Ci si chiede anche perché il partito di Bossi inasprisca sempre più lo scontro con gli stranieri. La risposta è facile: perché la Lega per continuare ad esistere ed essere credibile e rappresentare un elettorato che già prima dell’esistenza della lega era brutalmente xenofobo, deve continuare ad alzare il tiro, non può far altro. E allora le parole di Maroni sulla separazione dell’Italia dall’Ue, e lo sventolare l’idea di un esercito padano, non sono altro che l’avanguardia di quello che sarà se l’identità di appartenenza a questi partiti nazisti continuerà ad essere ambita ed apprezzata. Questo elettorato che da sempre ha insultato e umiliato tutti coloro che non parlavano in dialetto padano non è mai cambiato nella sua violenza che vuole l’eliminazione o la sottomissione dell’altro da sé , Bossi e i suoi complici creando la Lega Nord non hanno fatto altro che cavalcare la iena dell’odio verso lo straniero nata per il delirio che nega l’essenza umana a chi non parla il linguaggio autoctono dei ‘lumbard’.’
Già ero andato a Varese, la rocca della Lega Nord, anche pensando di fare un reportage, ma fino a che sono rimasto li mi sono lasciato piacevolmente invadere dagli ‘affetti familiari’ come dire “la famiglia”. Anche quando sono andato per intervistare i ‘sopravvissuti’ ci sono andato senza registratore e senza taccuino … ciò fatto una lunga chiaccherata con la Piera di Rifondazione comunista e con l’Angelo della Cgl (metto gli articoli prima del nome perché da Firenze in su si usa così) e poi tornato a Roma ho cercato di mettere insieme i ricordi.
Reportage viene dal francese ‘reporter’ riportare, ma anche riversare. E quest’ultima parola, ‘riversare’, mi piace perché mi crea l’immagine di un liquore che tenuto nelle botti di rovere poi non sarà più quello di prima ma ne uscirà arricchito, sempre che il legno sia di ottima sostanza. “Il reportage – così sta scritto su Wikipedia – è un genere letterario e giornalistico che privilegia la testimonianza diretta: l’autore illustra le persone, gli eventi, ciò che vede e ciò che prova quando che si trova in un paese straniero o un luogo inconsueto; può anche avere la forma diaristica del cosiddetto diario di viaggio.” Forse è troppo poco, questa definizione wikipediana non soddisfa pienamente la curiosità di sapere cosa succede al fatto in sé quando l’immagine che percepiamo viene vissuta filtrandola attraverso la nostra emotività, le nostre convinzioni culturali e politiche, il nostro suo gusto estetico, la nostra poetica.
Non si può mai parlare di oggettività della percezione perché se fosse tale nasconderebbe una malattia. La malattia del non essere. Ognuno di noi ha la propria semantica percettiva, vale a dire che la figura percepita dalla retina per trasformarsi in immagine interna viene attraversata dalla realtà umana del soggetto che osserva, così come il ricordo poi viene attraversato dalla “fantasia ricordo dell’esperienza vissuta” e diviene memoria personale ed originale e, a volte, reportage.
E allora volgendosi al tempo trascorso in quei luoghi dove i leghisti ormai spadroneggiano vengono in mente film come ‘L’invasione degli ultracorpi’ , dove gli esseri umani venivano sostituiti da copie perfette nella figura ma completamente razionali ed anaffettive creando in questo modo una società nazista dove i sentimenti e l’amore fra gli esseri umani erano banditi come fosse peste nera. La memoria fa ‘brutti scherzi’ perché da visoni che illustrano questi luoghi, dove sono ormai straniero, dove vive una strana società, nella quale, chi si sostenta come un parassita, con l’altrui sfruttamento, e vede la vita soltanto come un gran conto corrente, è ritenuto una persona valida, una ‘brava persona’ che ormai si è liberata di questi inutili sentimenti dei romantici.
Si perché qui sembra normale che un politico dica che prenderebbe a schioppettate gli extracomunitari, o che un altro dica che si vuole separare dall’Europa che lo intralcia, o l’altro ancora che vuole un esercito padano. Anzi è più che normale, è auspicabile.
Sotto tutto questa normalità c’è un pensiero delirante: essere per l’eliminazione o per lo sfruttamento dell’altro da sé. La più grande realizzazione identitaria per un leghista doc è questa.
E riattraversando il tempo con la memoria mi chiedo perché queste persone non si accorgono del loro stato di vita apparente. Ma lo so il perché : chi vive una vita pensando che c’è solo quella da vivere, che le cose del mondo sono andate sempre così e così sempre andranno, non può accorgersi del suo stato; chi vive insieme a persone che gli rimandano come uno specchio limpido la sua immagine così com’è dicendogli tacitamente che ha ragione a pensarla in quel modo, che non c’è un altro modo di pensare ecc., non può avere reazioni, perché il mondo in cui vive non dà stimoli. Giorno dopo giorno tutto è uguale a prima e se per caso qualcosa di perturbante emerge a disturbare il sonno della ragione, una bella pulsione di annullamento e via, per negare e far sparire ciò che potrebbe mettere in crisi … fino a che, prima o poi, un attacco di panico li avverte che hanno ancora poche chance per salvare quel poco di bellezza rimasta alla propria immagine interna.
E non è detto che nemmeno allora ce la faranno perché ci sarà un solerte psichiatra organicista che con quattro calmanti, che loro chiamano psicofarmaci, tutto si sistema, facendoli cadere in un limbo che non è altro che l’anticamera della morte fisica.
Poi ci sono i pochi sopravvissuti alla lebbra comune: li vedo al guado del “forse è possibile un’altra vita” e “la vita è questa e non sarò certo io a cambiarla”; come se fosse la ‘vita’ che fa la storia e non le donne e gli uomini che se la creano con i propri passi . E un’eco sorge dalla memoria: “Caminante son tus huellas /el camino y nada más; /caminante, no hay camino /se hace camino al andar.” Tu che cammini sappi che non esiste un sentiero tracciato da qualche divinità, il tuo sentiero lo crei camminando, diceva, più o meno, Machado.
Loro, i sopravvissuti, rinchiusi nell’ultimo Fort Apache, pieno di brecce dalle quali son passati già molti compromessi, resistono all’ultima carica con armi spuntate che non serviranno a salvarli.
Quello che sarà la storia di queste lande desolate non si sa, ce lo dirà la storia fatta da esseri umani che, ora, di umano hanno ben poco. A loro, ai sopravvissuti, suggerisco che si può passare il guado che divide l’umano dal disumano; dico anche che la reazione, al disumano, e la Lega Nord come ideologia appartiene al disumano, è possibile anche se è difficile sopportare il dolore delle separazione definitive, so che è difficile lasciarsi tutto alle spalle bruciando le mappe ed i ponti dell’eterno ritorno… e non parlo di luoghi ma di separazioni da chi ha scelto di rimanere attaccato come un mitile ad uno scoglio, apparentemente sicuro, aspettando, angosciato, l’urto dell’ennesima onda della storia che tragicamente lo trascinerà con sé. È possibile, basta non aver paura di vagar per un po’ nel buio della notte.
Per l’alta notte, per la vita intera,/di lacrima in foglio, di panno in panno,/sono andato in questi giorni nebbiosi. /(…) e nell’ora di cristallo, nel folto /di stelle solitarie, ho attraversato città, boschi, /valichi e fattorie, /dalla porta d’un essere umano all’altro, /dalla mano d’un essere a un altro, a un altro ancora./
Severa è la notte, ma l’uomo /ha disposto i suoi fraterni segnali, /e alla cieca lungo strade e ombre /sono giunto alla porta illuminata, /al breve punto di stella ch’era mio, /al pezzetto di pane che nel bosco i lupi /non avevano ancora divorato.
Pablo Neruda – Il fuggitivo