Albert Camus, Questa lotta vi riguarda: lezioni di giornalismo clandestino

Quest’anno che sta morendo è stato il cinquantenario della scomparsa di Albert Camus e la nemesis storica, lentamente, sta riparando agli inganni culturali che hanno sfregiato per molti anni la sua immagine. La crescente fortuna delle sue opere continuamente ristampate in decine di lingue diverse, in ogni parte del mondo, gli ridanno ciò che non gli è stato riconosciuto né in vita né dopo la morte, soprattutto dalla cultura francese tutta presa a glorificare intellettuali come un Foucault, apologeta della pedofilia, o un Sartre, collaborazionista dei nazisti durante l’occupazione, ma pronto a saltare sul carro dei vincitori quando i francesi, nell’agosto del ’44 liberano Parigi. Ma, si sa, il tempo è galantuomo ed immerge nell’oblio questi grigi personaggi. L’opera di Camus ha ben altro respiro. Essa è legata al suo modo di essere: egli non faceva mai la differenza tra l’opera, la vita, e la persona.

Nel mese di novembre è uscito nelle librerie italiane un libro importantissimo, soprattutto per chi si occupa seriamente di giornalismo, Albert Camus, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, Bompiani). Questo importante lavoro, tradotto da Sergio Arecco, è la raccolta di tutto ciò che Camus ha scritto su “Combat”, a cura e con presentazione di Jacqeline Leévi-Valensi, nell’edizione Gallimard, Camus à Combat, del 2002.

Combat fu il più importate giornale della Resistenza francese negli anni bui dell’occupazione tedesca sostenuta del governo collaborazionista di Pétain e della Milice criminale di Josef Darnard. Molti di coloro che si occupavano della redazione, della stampa, e della distribuzione clandestina del giornale, pagarono con la vita, con la tortura e con la deportazione nei lager nazisti, il loro impegno civile. Lo stesso Camus, che dal ‘42 al ’44 visse a Parigi e dintorni, sotto falso nome e ricercato dalla Gestapo, nella primavera del ’44 sfuggì fortunosamente alla cattura.

Il Combat di quegli anni fu un giornale libero, senza padri né padroni, e, pur appartenendo idealmente alla sinistra, non divenne mai l’organo di nessun partito. Questo sino al ‘48 quando, per divergenze di idee tra i componenti che lo avevano creato, Camus , Pascal Pia, Marcel Gimont e Albert Olivier, il giornale perse il suo slancio rivoluzionario e non ebbe più nulla  a che vedere con gli anni storici in qui Camus fu prima il redattore capo e poi, per un brevissimo periodo il direttore. La storia di Combat è narrata nel libro sia nell’introduzione sia nell’importante ‘Cronologia degli avvenimenti’ posta in appendice.

Quando ci si accinge ad aprire questo libro, si è presi da una strana sensazione di inquietudine. Si ha la sensazione di entrare nella storia dallo sguardo quest’uomo, Albert Camus, che non passava mai inosservato da chi lo incontrava anche solo sulle pagine stampate di un libro o di un giornale. Si poteva odiarlo oppure amarlo ma di fronte a lui non si rimaneva, e non si rimane, allora come oggi, mai indifferenti al suo pensiero.

Ma chi fu in realtà Camus, e quali furono le sue doti di giornalista? Sarebbe troppo lungo raccontare la sua storia, possiamo però dire, che ciò che fu l’autore de ‘Lo straniero’ lo si può intuire leggendo i suoi libri, o il suo discorso tenuto nel 1957 durante la consegna del premio Nobel, e soprattutto leggendo i suoi articoli su Combat che sono, per loro lucidità e per la loro assoluta chiarezza, uno sprone per coloro che pensano al giornalismo come ad un mezzo etico e come ad un impegno civile. La lucidità e la chiarezza della sua scrittura è legata ad una forte sensibilità umana e ad una capacità naturale di trasferire i propri pensieri e il proprio sguardo del mondo nelle parole, per poi metterle, per mezzo della scrittura, al servizio dell’umanità intera.

Nei suoi articoli, che troviamo in questo esaltante libro, incontriamo lo sdegno per i morti massacrati senza ragione dalla polizia nazista e dai traditori delle  Milizie; incontriamo le immagini  delle fasi cruente ed eroiche della liberazione di Parigi; si sente la speranza scalpitante dopo cinque anni di terribile occupazione nazista e si odono anche, dopo pochi mesi dalla liberazione di Parigi, i primi echi delle delusioni che infrangono istanze di libertà e di eguaglianza alle quali la voce di Camus dava voce e concretezza.

I titoli di questi articoli sono incendi che resistono ‘all’aria del tempo’: ‘ La lotta continua’, ‘Hanno fucilato dei francesi per tre ore’, ‘Sarete giudicati sulla base delle vostre azioni’, ‘Il tempo del disprezzo’, ‘Dalla Resistenza alla Rivoluzione’.

E ce n’è un altro del luglio del ’44, quando ancora Parigi era soggiogata dal nazismo, ‘La professione del giornalista’. Questo è il titolo di un piccolo box dove in poche parole Camus delinea la sua concezione di giornalismo: “Il giornalismo clandestino è onorevole perché è una buona prova di indipendenza. È buono e sano finché ciò che dice dell’attualità politica è pericoloso. Se c’è una cosa che non vogliamo rivedere mai più, è l’immunità dietro la quale hanno trovato copertura tanti atti di codardia, tante collusioni nefaste”. Sembra che parli delle circostanze politiche attuali.

Un’altra cosa importante in Camus è la sua perseveranza nel voler assolutamente mettere la passione al centro del giornalismo: “Ho cercato in particolare di rispettare le parole che scrivevo, giacché, per mezzo di esse, rispettavo coloro che le potevano leggere e che non volevo ingannare. (…) Dai miei primi articoli fino al mio ultimo libro io ho tanto, e forse troppo scritto, solo perché non posso fare a meno di partecipare alla vita di tutti i giorni e di schierarmi dalla parte di coloro chiunque essi siano, che vengono umiliati e offesi. (…) mi pare che non si possa sopportare quest’idea, e colui che non può sopportarla non può neppure addormentarsi in una torre. Non per virtù, ma per una sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova. Da parte mia ne vedo molti che non la provano, ma non posso invidiare il loro sonno.”

La difesa di chi è ‘muto’, perché non ha la possibilità di giungere al pensiero verbale della ribellione e di farsi ascoltare, diviene per Camus un imperativo categorico. Di questo suo modo di essere e di pensare egli era ben cosciente. Camus per sua natura, per “l’onore”,  così egli chiamava la propria immagine interna, ha sempre ‘dovuto’ stare, fuori dalla torre d’avorio ideologica che parla con il gergo diaccio della ragione per annullare la verità e la realtà umana dell’altro da sé. E tutto questo egli lo faceva per vivere la realtà vera, e quindi politica.

Quando Camus parla di questa “sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova.” dice anche della solitudine scelta per l’impossibilità di aderire a qualcosa che gli ripugna e che fa nascere dentro di sé la ribellione. Una ribellione che non scaturisce da una reazione puramente mentale ma da ‘qualcosa di organico’ perché in Camus non esiste la scissione tra mente e corpo.

La sua ribellione, la sua reazione all’inumano, la sua lotta continua contro tutto ciò che mascherato dalla ‘ragione’ lo portò sempre ad assumere posizioni scomode, come quando, nel plauso generale, egli si schierò immediatamente sia contro coloro che buttarono la bomba su Hiroshima e Nagazaki, sia contro coloro che non reagirono a quella carneficina. Camus dopo aver deprecato con sdegno la posizione della stampa entusiasta per i lanci della bomba atomica scrive: “ Noi riassumeremo il nostro pensiero in una sola frase: la civiltà meccanica è appena giunta al suo ultimo grado di barbarie.(…) Dinnanzi alle terrificanti prospettive che si aprono agli occhi dell’umanità, ci convinciamo ancor meglio che quella della pace è l’unica battaglia che valga la pena di combattere. Non è più una preghiera, è un ordine che deve sospingere i popoli contro i governi, l’ordine di scegliere  definitivamente tra l’inferno e la ragione” .

Non vi fu nessuno che come lui fu capace di ribellarsi al pensiero comune che vedeva nella strage di migliaia di bambini, di donne e di uomini solo un ‘buon modo di arrivare alla pace con il Giappone’.

È questo modo di esercitare l’arte dello scrivere che ha fatto di Camus un ‘giornalista clandestino’ che può insegnare ancora molto, oggi, e questo libro ne è la dimostrazione, a chi vuole scrivere per raccontare dell’invisibile istinto di morte.

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