Dis-inflazione BCE: aumenta il peso del debito, frena la ripresa

TRIESTE – La settimana di Borsa che va a concludersi oggi ha evidenziato più che mai l’atteggiamento attendista dell’Eurozona di fronte a ben cinque anni di stagnazione e recessione, nel corso dei quali si è limitata a salvaguardare la propria salute economica con il minimo indispensabile per evitare il disastro finanziario: il “Fondo salva-Stati” o ESM (European Stability Mechanism, meccanismo europeo di stabilità) ed il programma OMT (Outright Monetary Transactions, operazioni monetarie definitive) della BCE (Banca Centrale Europea).

Il fondo ESM può emettere prestiti (concessi a tassi fissi o variabili) per assicurare assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà, acquistandone titoli di debito sul mercato primario (contestualmente all’attivazione del programma Outright Monetary Transactions), subordinandoli a condizioni molto severe e rigorose che «possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite»; le OMT consistono invece nell’acquisto diretto da parte della BCE di titoli di Stato a breve termine emessi da Paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata, condizione che viene identificata ed assolta dall’avvio di un programma di aiuto finanziario del primo tipo.

Se almeno per il momento questi strumenti sono sembrati in grado di tenere a bada la crisi finanziaria, è indubbio che per rinvigorire l’economia dell’Eurozona è richiesto uno sforzo maggiore, in grado di sostenere quella produzione economica che i due fondi non possono supportare perché subordinati a politiche di svalutazione interna dei Paesi destinatari, che alimentano la disoccupazione e minano gli standard di vita nazionali.

La situazione dell’Ucraina vede l’Europa come spettatrice di una Russia che fortunatamente non ha intrapreso alcuna azione militare tale da richiedere l’applicazione di sanzioni economiche, con le principali conseguenze dell’attuale crisi a ricadere quasi esclusivamente sull’economia di Kiev: gli aiuti promessi dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) non possono essere resi operativi per la mancanza di interlocutori democraticamente eletti con cui negoziare (almeno fino alle elezioni previste per luglio) così che, stante un  outlook economico già abbastanza compromesso dalla debolezza finanziaria e dalla mancanza di export del Paese, il vuoto di potere dei prossimi mesi ed il collasso della valuta potrebbero amplificare le difficoltà dell’ex repubblica sovietica.

In considerazione del supporto della comunità internazionale e del limitato flusso di debito in scadenza, il rischio di default dell’Ucraina da qui alle prossime elezioni non dovrebbe impensierire la ripresa, seppur a ritmo lento, in atto in Europa, dove tuttavia il tasso di inflazione più basso delle attese, anche se in gran parte a causa di fattori esterni, fa aumentare il rischio di una spirale deflativa auto-alimentata. Il deleverage, il disinvestimento in attività produttive attuato in questa fase economica da banche e Stati sovrani per fare cassa, sta ponendo un’enorme pressione sulle famiglie e sulle imprese, costrette a tagliare le spese: questi tagli indeboliscono la domanda di beni e servizi con conseguente riduzione dei prezzi, a loro volta causa di una generale diminuzione dei ricavi che prelude a nuovi ed ulteriori diminuzioni dei costi, in una spirale negativa che si aggrava passo dopo passo.

La revisione della BCE delle proprie stime sull’inflazione, attesa ora all’1% per il 2014 (rispetto alla precedente indicazione dell’1,1%), all’1,3% per il 2015 e solo all’1,5% per il 2016, lascia dunque supporre una politica monetaria accomodante ancora per un prolungato periodo di tempo: un’inflazione stabilmente al di sotto dell’1% rende infatti più pesante l’onere del debito e dei tassi di interesse reali, soffocando l’economia. Beffardamente Germania ed Austria sono i paesi dove l’inflazione è comparativamente più alta, mentre in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, che più avrebbero bisogno di stimoli alla ripresa, la minor inflazione ostacola il riaggiustamento di prezzi e salari nei confronti dei paesi più competitivi ed aggrava il problema della disoccupazione.

Lo scorso giovedì questo difficile contesto ha indotto la Bank of England (BoE) a lasciare invariato allo 0,50% il tasso di riferimento, livello più basso dal marzo 2009 e periodo più lungo dagli anni Quaranta per mancanza di variazioni, confermando a 375 miliardi di sterline anche il piano di riacquisto Bond.

Anche la BCE ha mantenuto allo 0,25% il saggio di riferimento, nonché a quota zero il tasso sui depositi ed allo 0,75% il tasso marginale; stando alle parole del suo presidente Mario Draghi, l’istituto sta valutando l’adozione di nuove misure straordinarie, incluso il Quantitative Easing già proposto dalla Fed, anche se tali scelte «non sono facili, ci vuole tempo».

Spostando l’attenzione ad Oriente, ultima seduta di ottava positiva per i listini asiatici: a Tokyo l’indice Nikkei ha guadagnato lo 0,92%, grazie al nuovo calo della moneta giapponese, ai minimi degli ultimi due mesi sull’euro, che ha favorito le società maggiormente orientate all’export internazionale.

Segno meno, invece, per le Borse cinesi, con una debole  Hong Kong (-0,19%) ad affiancarsi ad una Shanghai poco sotto la parità. Il Congresso nazionale del Partito comunista non ha annunciato le tanto auspicate riforme per la liberalizzazione del mercato cinese, previsto in crescita del 7,5% nel 2014; degne di nota infine le dichiarazioni del governo di Pechino relative all’ingresso di capitali stranieri nel settore energia, che hanno fatto scattare gli acquisti sui titoli del comparto.

Avvio debole per le piazze finanziarie del Vecchio Continente, in una seduta proseguita con il segno meno a causa di alleggerimenti dei portafogli azionari a favore di beni rifugio come il franco svizzero, dettati da timori per la tenuta dell’economia americana; la lieve accelerazione della crescita aggregata dell’Eurozona nell’ultimo trimestre dello scorso anno (+0,3%) non è bastata a bilanciare apprezzamento dell’euro, crisi Ucraina ed andamento di Wall Street, così che Francoforte chiude perdendo 2 punti percentuali, Madrid scivolando dell’1,36%, Parigi lasciando per strada l’1,15% e Londra l’1,12%.

A Milano apertura negativa per il FTSE Mib per effetto delle vendite su Telecom Italia, che al giro di boa di metà seduta è stata però oggetto di molte ricoperture; un contesto che porta Piazza Affari (FTSE Mib -0,98%, FTSE Italia All Share -0,86%) a chiudere in ribasso l’ultima seduta della settimana, segnata dalle performances dei bancari: Monte dei Paschi di Siena (-1,62%) ha scontato le speculazioni sulla posizione, mentre Popolare dell’Emilia Romagna (-5,71%) paga l’eventualità di dover procedere ad un aumento di capitale; negative anche Intesa Sanpaolo (-1,9%) ed Unicredit (-1,26%).

Riflettori puntati su Telecom Italia (-2,57%) che, in seguito alla pubblicazione dei dati di bilancio 2013, anno in cui sono stati ceduti gli asset in Argentina, ha dichiarato un calo dei ricavi del 9,1% rispetto all’anno precedente, annunciando per la prima volta nella propria storia la mancata distribuzione del dividendo sulle azioni ordinarie.

Tra i titoli a maggior capitalizzazione rialzo di Pirelli (+1,92%) nonostante la cessione dell’intero pacchetto di 7 milioni di azioni ordinarie detenuto da Intesa Sanpaolo e calo di Fiat Chrysler (-2,15%), anch’essa alle prese con la riduzione della partecipazione detenuta nel gruppo da Norges Bank.

Sul fronte del debito sovrano, chiusura in lieve ribasso del differenziale di rendimento tra il Btp decennale ed il Bund tedesco di pari scadenza a 177 Bp (Basis point, punti base), con il tasso sul decennale italiano fissato al 3,42%.

Lo spread tra titoli decennali spagnoli e tedeschi segna un differenziale di 170 punti base che porta il tasso dei Bonos al 3,34%, nuovamente in sorpasso sul Belpaese.

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