Venezia 1734. L’uxoricidio di Anna vedova Guimelli

VENEZIA – Grazie alla trasmissione di Rai Tre «Amore Criminale», condotto da Camila Raznovich, conosciamo bene la definizione di uxoricidio, ovvero chi uccide la propria moglie. Ciò che spesso, invece, ignoriamo sono le motivazioni di un atto che per il diritto penale italiano è una forma di omicidio aggravato. La gelosia è senz’altro la matrice più comune ma dietro i fatti di cronaca che coinvolsero la povera Anna Guimelli, non fu questo che rese il marito un assassino e solo per un caso fortuito fu immediatamente arrestato.

Sono le cinque della notte del 15 febbraio 1734, mancano poche ore all’alba, il capitano delle barche del Consiglio dei Dieci, Giovan Battista Caritan si sta cercando di scaldare nella sua guardiola dentro palazzo Ducale a San Marco. Nel buio della notte si avvicina velocemente una persona e lui gli intima l’altolà. Lunardo Moggio, calderaro, si presenta come capo della contrada di Sant’Angelo. Risulta visibilmente alterato ed ha più di qualche motivo per esserlo. In modo concitato spiega al capitano che nella sua contrada è stata ritrovata una donna sgozzata. Il capitano raduna le altre guardie e dopo aver dato istruzioni per sostituirlo in guardiola, si avvia con il drappello verso la calle della Scoazera dietro la chiesa di Sant’Angelo. Oggi quella chiesa non esiste più, fu demolita nel 1837, ma si trovava non troppo distante da San Marco, e proprio in frezzeria, una strada che da San Marco arriva fin dietro La Fenice e quindi a due minuti a piedi da Sant’Angelo, il gruppetto di uomini armati, incontrano un uomo in tabarro, armato di spada, che con passo celere li supera. E’ notte e non ci sono molte persone in giro a quell’ora. Il capo sestiere, Lunardo Moggio, ferma il capitano e gli chiede di arrestare quell’uomo. Giovan Battista Caritan gli chiese se era proprio sicuro di quello che stava facendo ed il capo contrada gli rispose che sapeva l’affar suo. All’ordine di fermarsi dato dai soldati, l’uomo con il tabarro non oppone resistenza, viene subito disarmato e scortato fino a palazzo Ducale. Il capitano da ordini di tenerlo in custodia e poi ritorna sui suoi passi per arrivare una mezz’ora più tardi, davanti ad una casa all’inizio della calle detta scoazzera. La casa si affacciava sul campo. La porta era già stata aperta, il capo contrada gli spiega che erano stati i suoi uomini a trovare la donna. I soldati entrarono dentro.

Il silenzio profondo è turbato dai passi di quegli uomini che osservano nella penombra l’ambiente che si prospetta davanti ai loro occhi. In una stanza adibita a cucina, sopra il tavolo, sono riposti alcuni piatti. Nella relazione che si trova depositata nel fascicolo, il capitano annota che il piatto aveva dell’insalata dentro e sembrava fosse stata in parte già mangiata. Scrive anche che aveva visto un grosso coltello conficcato nel tavolo della cucina ma non sembrava avesse tracce di sangue. Il capo contrada lo avvisa che la donna è di sopra. Percorre le scale ed entra dentro una stanza che è la camera da letto. Distesa sul pavimento giaceva una donna. Una pozza di sangue all’altezza della gola, lasciava in parte visibile lo squarcio che attraversava il collo. Non era un falso allarme, una donna era stata veramente uccisa. Il capitano a questo punto ordina che un uomo resti di guardia e che nessuno tocchi nulla, scende le scale e ritorna in caserma. Dopo aver avvisato la magistratura preposta, in questo caso i Signori di Notte al Criminal, viene contattato un chirurgo. Il chirurgo si chiama Giovanni Casorto e viene accompagnato dal fante Alessandro Cavara. Entra solo poche ore dopo nell’abitazione della vittima. Viene fatto passare dalla guardia e sale anche lui le scale. Si avvicina alla donna e facendo attenzione controlla la ferita. Nel referto segnala che il taglio era profondo ed aveva inciso le vertebre cervicali. Era stato inferto un solo colpo, probabilmente con una spada. Nel mentre una guardia arriva dopo aver fatto un controllo nei registri di nascita della chiesa di Sant’Angelo. Quella donna, secondo il parroco, corrisponde al nome di Anna vedova Guimelli rimaritata Dagnin, di professione meretrice, età cinquanta anni. L’uomo, che era stato fermato in frezeria alcune ore prima ed era custodito nelle carceri, rispondeva al nome di Giuseppe Dagnin, marito della vittima.

Cosa era successo in quella casa? La mattina successiva Giuseppe Dagnin viene condotto davanti al magistrato. Dagnin è un uomo di bassa statura, capelli grigi, vestito con un tabarro di panno violetto, una giacca di color marrone con bottoni bianchi di metallo. Indossa un cappello bordato d’argento e ai piedi porta delle scarpe con delle fibbie sempre d’argento. Il magistrato gli chiede le generalità e la professione: “Giuseppe Daprino di Tommaso, nativo di Genova, di professione filatore di seta, da due anni residente a Venezia”. Risiedeva nella casa del nobile Priuli Scarpon, dove era stato trovato il corpo. Gli chiese se sapeva perchè era stato arrestato. Si, sapeva di essere accusato di aver ucciso sua moglie ma lui, con quell’omicidio, non centrava nulla e racconta una strana storia. Quella sera era in cucina che parlava con una giovane della quale non conosceva il nome, o forse non se lo ricordava. La giovane era stata mandata da una vecchia di nome Meneghina, conoscente di una certa Checha che abitava a San Fantin vicino al ponte dove stava il botter. Stava discutendo con la ragazza di come avrebbe dovuto trovarle marito mentre attendeva di cenare. Verso le quattro, come era solito fare, fischiò alla moglie che venisse giù per cenare. La donna però non scendeva e lui, preoccupato del fatto che non sentiva risposte,  sali le scale e la trovò con la gola tagliata. A quel punto esclamò: “ beatissima vergine maria quella povera anima”. La ragazza che lo aveva aspettato in cucina corse di sopra e visto lo spettacolo, urlando scappò via. Lui era disperato e prese una spada uscendo in cerca di aiuto, all’altezza della frezeria fu fermato dai soldati. Questo era tutto. Il magistrato gli chiese se avesse sentito urlare o entrare ed uscire qualcuno. No, nessun rumore e non vide nulla ma era distratto a parlare con la giovane.

Ovviamente questa ricostruzione non convince. Avviene una perquisizione serrata di tutta la casa. Nel fascicolo si trovano quattro carte con la lista di tutto quello che è presente. Un chirurgo, incaricato di controllare la scena del crimine, segnala una macchia di sangue sopra la coperta ed altre sul lenzuolo. Anche la sopra-coperta, che era rivoltata ai piedi del letto, risulta schizzata. Poi c’è un catino con dell’acqua mista a sangue. Anche quella viene periziata e c’è la conferma che è proprio sangue. La donna è stata uccisa sul letto, non si è difesa, non ha reagito. Non viene trovata l’arma del delitto ma non si esclude che possa essere la spada che aveva l’uomo al momento del suo arresto.
Nella perquisizione si trovano alcune lettere spedite dal marito al vescovo di Venezia. Giuseppe denunciava la moglie per essere una meretrice e per non averlo saputo al momento del matrimonio. Ma quello che è strano è che non chiede il divorzio, anzi, prega il vescovo di continuare a vegliare su quella donna che ha perso la strada della rettitudine. Si erano sposati nel ventinove e in quegli ultimi cinque anni lui aveva viaggiato da Roma a Milano nel tentativo di trovare un sistema per poter far cambiare a sua moglie quella vita promiscua che conduceva.

Il giorno seguente avviene una seconda perizia di un chirurgo ma non si aggiungono altri particolari. Iniziano gli interrogatori dei vicini e dei parenti ed è a questo punto che si vengono ad aggiungere alcuni particolari interessanti. Alcune persone affermano che la donna aveva il vizio di chiedere le cose in prestito e di non restituirle. Il 22 febbraio il magistrato fa fare un controllo al Monte della Pietà di Treviso e vi trova oro, gioielli ed altri oggetti preziosi intestati alla donna.
Ma la svolta avviene quando si riesce a trovare la giovane ragazza della quale Giuseppe non ricordava o non voleva dire il nome. Da palazzo Ducale viene inviata una lettera dall’avvocato Lorenzo Contarini che si ritrovi velocemente Caterina figlia di Francesco Cruta detto Pogiaro, che si trovava a casa di tale Cattarina Alloco nei giorni dell’omicidio.
La giovane era stata indicata da un testimone che affermò di aver sentito dire che a casa di tale Bortolo figlio di Valenza, quella ragazza aveva giurato di aver assistito ad un assassinio. Il 24 febbraio entra nell’ufficio del magistrato Catarina Cruta. La versione che offre è totalmente diversa ed incastrerà il Giuseppe.

Comincia a raccontare al magistrato che quel giorno, su indicazione di una sua conoscente, era andata a casa dei coniugi Dagnin. Lei era una giovane donna da maritare e lui conosceva molte persone. Non le piaceva molto l’idea, perchè, sapeva che i due coniugi litigavano spesso. Anna rivendeva le cose prese in prestito e Giuseppe viaggiava senza rendersi conto di quello che succedeva in quella casa. Ma lei doveva solo cenare e stava preparando l’insalata quando arrivò la moglie del Dagnin. Avevano litigato furiosamente  tutto il pomeriggio, poi ad un certo punto lui era uscito per andare a giocare a carte e lei pure era andata via. Quando il Giuseppe la vide rientrare le disse con tono pacato di andare subito di sopra, la prese per un braccio e sali le scale. Caterina si ricordava perfettamente che sulle scale lui le aveva detto “movite (muoviti)”, spingendola verso il letto ed aveva uno strano tono. A quel punto mossa dalla curiosità si era avvicinata all’entrata della camera e vide che mentre la donna gli stava urlando improperi, lui tirò fuori da sotto il letto una spada. Fu un solo attimo. Il braccio di lui si piegò velocemente e la spada, compiendo un mezzo giro, tagliò con un colpo netto la gola della donna. Un fiotto di sangue imbrattò il letto, Anna si prese la gola, mentre il sangue usciva copioso e si portava via la luce dagli occhi stupiti di lei. Fu solo un attimo ma in quell’istante, in quella casa, lui aveva fatto una precisa scelta. Cinque anni di litigi e sofferenze, cinque anni a combattere contro i vizi di lei. Alla fine del fascicolo, stranamente, non troviamo la condanna. Tra gli interrogatori, le prove raccolte, le varie testimonianze e le perizie, non restano molti dubbi sulla fine che fece. Ma seppur completo, un vero e proprio punto finale a questo processo manca, anche se, conoscendo la giustizia veneziana, Giuseppe Dagnin avrà percorso gli scalini del patibolo tra le due colonne di San Marco.

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