Storie di tragedie annunciate. Il fallimento della ‘legge Basaglia’

ROMA – Domenica scorsa, in provincia di Pescara, un giovane di 27 anni, Valentino Di Nunzio, ha ucciso la madre colpendola ripetutamente con due coltelli: il primo si era spezzato nel corpo della vittima. Le prime parole dette dal Di Nunzio ai militari dell’Arma, intervenuti nel luogo dell’omicidio, sono state: “Ero da mio cugino, dovevamo vedere un film. Poi ho pensato “vado”.

E sono tornato a casa.(…) I miei genitori mi opprimevano, non mi facevano uscire”. Poi la solita frase schizofrenica per dare un senso a ciò che non ne ha  – Volevo andare al bar con mio padre, non mi ci ha portato”.
Dopo un paio di giorni è spuntato su facebook un cortometraggio, di cui il Di Nunzio è autore regista e attore, della durata di nove minuti circa, nel quale il matricida, nelle vesti di un aspirante killer, declama: “La pazzia è vera, vera come la morte che è l’unica cosa che non ti tradisce.(…) È pazzesco come le persone riescano a pensare che un assassino sia qualcosa di lontano da loro. Invece no, io c’ero sempre stato… (…)“ Volevo un pollo da sgozzare. (…) Cercavo sangue, volevo ascoltare il suono della morte. (…) Tutti sono buoni a fa nascere qualcuno, ma a uccidere no, per uccidere ci vuole coraggio. (…) Mi sentivo un dio castigatore, nel mio giardino c’è sempre carne fresca da macellare”.

Questo agghiacciante cortometraggio, dal titolo ‘La dodicesima vittima’, oggi appare come l’evidente annuncio di una tragedia, la quale, proprio per il fatto che era stata segnalata con questo video, si poteva evitare. Il giovane assassino, ha spiegato ai Carabinieri il suo legale Isidoro Malandra, era in cura psichiatrica da alcuni anni. Il medico che lo ‘curava’ è già stato ascoltato dagli inquirenti ed ha confermato il grave stato di salute mentale del giovane.

Certamente è troppo facile parlare con il senno di poi, però, forse, se il medico avesse ‘ascoltato’ meglio la sofferenza del giovane e se fosse stato a conoscenza del cortometraggio, avrebbe potuto avvertire i congiunti, e, utilizzando quei pochi strumenti che ancora posseggono gli psichiatri, obbligarlo ad un TSO, cioè un ricovero coatto di 15 giorni, durante il quale verificare la probabile pericolosità del paziente il quale, come dice lo psichiatra che lo aveva in cura, versava in un “grave stato di salute mentale”.
Anche il professor Francesco Bruno, criminologo di fama, intervenendo sulla vicenda, sostiene la tesi della tragedia annunciata: “Che gli schizofrenici usino Internet per diffondere i messaggi farneticanti dipende dal contesto in cui viviamo: al giorno d’oggi, l’onnipresenza di questi strumenti rende la comunicazione digitale quella più immediata, la più facile da usare”. Le dinamiche di questo delitto non sorprendono il criminologo che vede, nei comportamenti dell’assassino, tutti i sintomi della patologia schizofrenica. Anche la volontà di rendere palese la propria intenzionalità ha chiari risvolti clinici : “Spesso questi soggetti – spiega Bruno – fanno i loro annunci ma non vengono ascoltati. (…) Nel migliore dei casi, questi soggetti si tolgono la vita per non nuocere agli altri; nei casi più efferati, invece, la rabbia si sfoga proprio sulla madre”. Naturalmente la malattia mentale tende ad aggravarsi quando è proprio la famiglia che tende a nascondere stati patologici di questo tipo, a minimizzarli e a etichettarli come un gioco. Infatti al cortometraggio parteciparono sia il padre che il cugino dell’omicida.

E quindi eccoci qui di fronte all’ennesima tragedia annunciata: c’era un video agghiacciante e la diagnosi psichiatrica di “grave stato di salute mentale” e nessuno ha saputo o voluto vedere la pericolosità di un pensiero lucido che andava verso il suo obiettivo sfidando, con un acting out, il lungometraggio, coloro che pur stando attorno a lui erano assenti, affettivamente assenti.
Anche la canzone ‘Back to black’ di Amy Winehouse potrebbe essere stato un acting out della cantante che di fatto si è suicidata con alcol e droga. Un acting out, che in termini psichiatrici ha il senso di una ricerca di aiuto, significa mostrare, in questo caso attraverso il testo di un pezzo musicale, un malessere profondo che porta verso il male oscuro, verso la depressione, “verso il nero”.
Malesseri profondi, a volte vere e proprie malattie mentali come la schizofrenia del matricida di Pescara, che nessuno vede, diagnostica, cura, spesso si risolvono drammaticamente.

Per capire bene lo stato delle cose della psichiatria in Italia si deve tornare a una trentina di anni fa quando, grazie al movimento demagogico dell’Antipsichiaria, e ad una legge generata da questa ideologia, che erroneamente continua ad essere chiamata ‘Legge Basaglia’, i matti cessarono di essere matti. Schizofrenici, psicotici cronici, depressi gravi, catatonici, come d’incanto finirono di essere tali e divennero ‘ribelli’ ad una società ingiusta e alienante, e quindi vittime discriminate. I malati di mente divennero profeti di una verità sociale, non accettata dai ‘normali’ e quindi ‘assolti’ dalla pazzia e naturalmente rilasciati dai manicomi. Manicomi che spesso erano dei lager per un sistema che vedeva politici e medici corrotti adoperarsi per il fallimento delle strutture pubbliche a favore di quelle private che sono, allora come ora, spesso dei lager.
Dal 13 maggio 1978, giorno di approvazione della legge quadro180, i malati di mente non sono più esistiti e naturalmente nemmeno gli psichiatri che, deresponsabilizzati dal loro dovere di curare la malattia mentale, sono divenuti dei semplici guardiani che a forza di psicofarmaci anestetizzano schizofrenici e psicotici o eccitano i nervi troppo rilassati dei depressi. Sul mito di Basaglia, santificato dalla cultura dominante, e su i suoi ‘miracoli’, si sono create innumerevoli leggende metropolitane che lo esaltano come eroe dalla psichiatria moderna. La realtà è un’altra. Nei primi anni di applicazione della 180, le morti, che indirettamente erano causate dalla malattia mentale, rilevate dall’Istat, aumentarono del 43,5% ed in particolare i suicidi per disturbi psichici aumentarono del 20%. I ricoverati negli ospedali psichiatrici giudiziari – cioè gli autori di azioni delittuose giudicati “incapaci d’intendere e di volere” e spinti al delitto dalla mancanza d’ogni cura psichiatrica – aumentarono del 60%;  tra i giovani tra i 14 e vent’anni, l’età tipica d’insorgenza della schizofrenia, quasi dell’80%.

In un saggio di Adriano Segatori, ‘Oltre l’utopia basagliana’ , Mimesis Editore, pubblicato nel 2010, viene rivisitata coraggiosamente la questione della malattia mentale. In questo saggio Segatori fa finalmente le pulci all’ideologia che ha sostenuto lo psichiatra Franco Basaglia, che fu legittimato dai suoi maestri, primi fra tutti Heidegger e Binswanger e dai cosiddetti grandi della filosofia francese postmoderna, Michel Foucault a Gilles Deleuze. Segatori affronta frontalmente la questione: “La scienza psichiatrica è stata distrutta dalla Legge Basaglia, Tutto in barba all’oggettività della malattia mentale che – scrive Segatori – nonostante si voglia prodotta da un vago e indefinito disagio sociale, maggiore nei paesi industrializzati e che colpisce anche i ricchi e i socialmente riusciti, è presente in tutte le latitudini e in tutte le culture anche primitive”.

Negli anni che precedettero il ‘68 fu attuata una vera e propria “distorsione paranoica”; la complessità del disturbo psichico venne spiegata “attraverso un semplice cortocircuito sociale” e si volle risolverla con “un’equazione visionaria” che annullava ogni tipo di identità medica psichiatrica. Scrive Segatori: “In nome di un livellamento operativo verso il basso, il malato mentale diventò il simbolo di una società ingiusta e l’operatore psichiatrico un restauratore rivoluzionario di una velleitaria equità – grazie al risentimento ben indirizzato e fomentato”. Il risultato dell’anti-psichiatria all’italiana, di cui Basaglia era il punto di riferimento indiscusso, fu la chiusura dei manicomi, senza attendere un’adeguata strutturazione sostitutiva, seguita nei decenni dalla difesa di un “sistema dottrinario intramontabile da parte di una casta liturgica chiusa e potente dedita alla diffusione del verbo originario”.

Nel settore pubblico, anche a livelli dirigenziali, c’è, purtroppo, la presenza-assenza di psichiatri e psicologi di stampo basagliano, ben contenti di essere deresponsabilizzati dalla cura psicoterapica del malato, e contenti invece di ‘prendersi cristianamente cura’ di donne e uomini che avendo perduto una parte della propria identità umana possono essere violenti con gli altri e con se stessi e possono quindi uccidersi o uccidere.
E questo ‘prendersi cura’ anziché curare, è una credenza dogmatica quasi inattaccabile, incastonata a fuoco nella cultura italiana che ha al timone l’idea salvifica del cristianesimo. Basti a pensare a quella donna santificata dalla Chiesa cattolica, Teresa di Calcutta, la quale faceva entrare gli ammalati negli ospedali e li lasciava a languire, senza cure, nei pagliericci, prendendosi però cura di loro, cioè portandogli solo quel poco di acqua e cibo che riuscivano ad ingoiare. Se poi portiamo questo concetto nel sociale vediamo sempre in prima fila la Chiesa cattolica intenta a ‘prendersi cura’ delle famiglie, piene di figli, disagiate della provincia di Napoli, ma non certamente così pronta a ‘curare’ il loro stato sociale e la loro sottocultura, parlando loro di demografia, di anticoncezionali, di scuola, di educazione civica, di qualcosa che riesca a riscattarli da questo vivere in modo subumano. Naturalmente i preti non parlano loro di anticoncezionali perché altrimenti poi “Gesù bambino piange” e perché sanno che la credenza in un modo migliore post mortem si nutre di disperazione, cioè della perdita di speranza nella vita reale.
Fortunatamente in questi ultimi 15-20 anni alcuni psichiatri hanno preso le distanze da ideologie e credenze nel soprannaturale, e si sono riappropriati della propria identità medica, ma lo hanno dovuto fare o, nel pubblico, scontrandosi frontalmente con gli epigoni dell’antipsichiatria che nega la malattia mentale, o aprendo studi privati dove possono svolgere il loro lavoro di cura del malato psichiatrico.

In questi anni solo un folto gruppo di psichiatri e psicologi che opera in Italia centrale, avvalendosi dalla ‘Teoria della nascita’ dello psichiatra Massimo Fagioli, resa pubblica  già nel 1971, “cura con fine di guarigione i pazienti”. Per far ciò devono ogni santo giorno affrontare sia l’ottusa psichiatria organicista, che diagnostica il disturbo mentale come alterazione della chimica del cervello, condannando così i pazienti ad un destino farmacologico, sia la pseudo cultura freudiana che convince i pazienti a convivere con la propria malattia, incurabile, sia gli epigoni del pensiero debole, che nel rivolo dell’antipsichiatria, negano persino l’esistenza della malattia mentale.

Proprio venerdì 30 settembre, lo psichiatra Massimo Fagioli ha affronta in un settimanale il tema della cura in un articolo dal titolo ‘Cura e prendersi cura’. Scrive Fagioli, ricordando una sentenza della Cassazione nella quale veniva definito il concetto di cura: “Era aprile, infatti quando fu pubblicata la sentenza (n.14408-2011 N.d.R.) che dava una identità al termine verbale: psicoterapia. “Cura con fine della guarigione”. Ma fu silenzio.” Poi lo psichiatra continua; “E Freud inventò la parola psicanalisi. Una ‘strana’ cultura legò il termine verbale psicoterapia, all’idea di assistenza amichevole per derelitti che non potevano fare ‘l’aristocratica psicoanalisi’”. Naturalmente Lo psichiatra intende dire che solo chi ha a disposizione 2000-3000 euro al mese può accedere alla ‘aristocratica psicanalisi”; come fece Woody Allen che dopo vent’anni di lettino disse: “Ci provo ancora per un anno poi vado a Lourdes”. Gli altri i “derelitti” dovranno recarsi nei Centri di Igiene Mentale per farsi dare dosi da cavallo di psicofarmaci per poi tornare a casa a rincattucciarsi nel letto per giornate intere.
Ci sono anche gravi malati di mente che non li ritirano i farmaci, e sono la maggior parte, perché il malato psichiatrico nega sempre la propria malattia. E così li vediamo nelle piazze e nelle strade delle città a gridare la loro pazzia finalmente ‘libera’, grazie al basaglismo, o, quasi tutti giorni, leggiamo i loro nomi sui giornali accanto alla parola “uccide”. E questo perché, nonostante la loro violenza visibile ed invisibile e i loro sibillini avvertimenti, nessuno ha fatto nulla per impedire loro di uccidere il padre, la madre, i bambini, il vicino di casa o di suicidarsi ammazzando prima moglie e figli.

Dopo le tragedie, e i primi, “mi sembrava tanto una brava persona” si viene a sapere che queste ‘brave persone’, come nel caso del matricida di Pescara, erano in cura psichiatrica e che avevano manifestato verbalmente, in modo più o meno esplicito, idee omicide e/o suicide. Per non parlare poi delle migliaia di “tragedie senza grida” che avvengono tra le mura domestiche quando il malato violento picchia la madre silente, perché, quasi sempre, sa di essere colei cha ha generato la malattia del figlio. Così il cerchio si chiude: la malattia ritorna nel luogo della disperazione dove è stata generata, fatta crescere e ci si è preso cura di lei… della malattia…

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