Produttività, un illusionistico sistema di specchi

ROMA – Ciascuna delle organizzazioni della rappresentanza sociale convocate a Palazzo Chigi  per portare a conclusione il confronto sollecitato dal Governo, e da tempo in corso, sulle politiche per elevare la produttività del nostro sistema economico, è legittimamente costituita e rappresentata da organi dirigenti autorevoli e responsabili.

E’ banale, e quindi superfluo, dirlo? No! è necessario. Come è necessario riconoscere che nessuno fra i soggetti seduti a quel tavolo è detentore del monopolio della saggezza  e della responsabilità. Neppure il Governo dei tecnici. Ci si esima dunque dalla sequela dei commenti sui significati reconditi della firma o della mancata firma -a prescindere dai contenuti reali del protocollo- e si valutino con rispetto i pronunciamenti di ciascuno, se davvero si hanno a cuore lo stato e le prospettive del nostro sistema produttivo.    
Il problema è molto serio: il tasso di produttività è un indicatore fondamentale della solidità del sistema economico, tanto più per i sistemi manifatturieri -come il nostro- fortemente vocati all’export. Ma proprio per questo non ce la si può cavare con un illusionistico sistemi di specchi.
Senza peccare di troppo cinismo, si potrebbe proporre il lancio di un pubblico concorso: un premio a chi sappia rintracciare anche una sola impresa convinta di poter ottenere un beneficio effettivo da quanto previsto in quel protocollo, fra le tante che competono quotidianamente sul mercato globale e che costituiscono l’ossatura della nostra economia.
Susanna Camusso ha definito la vicenda “una occasione perduta”; è vero. E sarebbe stato vero anche se, per valutazioni dettate da ragioni di opportunità, avesse apposto anche la sua firma a quel protocollo. Ecco perché risulterebbe insopportabile la solita litania astratta di interpretazioni su chi firma, chi non firma e perché, a prescindere dal merito.
La capacità competitiva delle imprese -e dei sistemi di impresa – è determinata da una pluralità di fattori: condizioni di accesso alle tecnologie e alla ricerca,  capacità di integrazione produttiva, dotazione di competenze manageriali, sostegno all’export, condizioni per l’approvvigionamento energetico e di materie prime … Anche dalla fiscalità, certamente; ma in “quella” misura, e per di più non strutturalmente?  Inoltre il fisco è materia che attiene direttamente alla autonoma responsabilità del Governo e del Parlamento.  La capacità competitiva dipende anche dalla qualità delle relazioni industriali, certo; ma dunque perché non si è dato sviluppo all’accordo del 28 giugno 2011, preferendo reimmergere la questione in una prospettiva futura incerta?

Un confronto vero sui fattori di produttività e competitività sarebbe stato -e forse è ancor oggi- auspicabile e necessario; ed è mia convinzione che, qualora si focalizzasse sui temi effettivamente cruciali, sarebbe vissuto dagli attori reali della nostra economia con autentica partecipazione e consenso. Non con la rassegnata indifferenza che traspare anche dai commenti, molto di maniera, di chi pure ha espresso adesione a quel protocollo.
Ecco perché “occasione perduta” è la più appropriata e ragionevole delle definizioni.
Perché chi volesse valutare le cose con meno moderazione troverebbe nella vicenda e nei suoi esiti altri spunti critici; due per tutti.
Innanzitutto: la clausola sul cosiddetto “demansionamento” si configura come un vero e proprio sfregio al diritto del lavoro consolidato; e non intendo, con ciò, omaggiare alcun tabù. Mi si dica, piuttosto, se si può: esiste forse un diffuso e irrisolvibile contenzioso in materia oggi? Quante e quali imprese ne sono tanto intensamente travagliate? La cosa è incomprensibile se non leggendola con malizia.
In secondo luogo torna alla mente in queste ore la improvvida dichiarazione rilasciata qualche tempo fa dal Presidente Monti, con la quale enunciava la propria avversità alla prassi concertativa in quanto le parti sociali sarebbero, per definizione, portatrici di interessi parziali e corporativi. Verrebbe da dirgli oggi: Presidente Monti, per un liberale autentico quale ella indubbiamente è, è un bel cambio di cavallo passare in così poco tempo da quella enunciazione ideologica alla richiesta rivolta alle parti, di sottoscrivere un protocollo così vuoto di contenuti. Avrebbe potuto consultare le parti e, su una materia tanto cruciale, esercitare con i fatti la responsabilità del Governo che presiede, in nome dell’interesse generale.
Insomma, davvero una occasione perduta per tutti, anche per le parti sociali, nessuna delle quali ha voluto o saputo porre il confronto su ben altro terreno.

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