Costituzione. Con la “larga intesa” si è già cominciato a manometterla

Napolitano metta  in sicurezza   diritti  e doveri che la Carta garantisce al popolo

ROMA – Bella e onesta intervista quella che il Presidente Napolitano ha concesso ad Eugenio Scalfari domenica scorsa e pubblicata in parte su “la Repubblica” di lunedì. Per la verità il report cartaceo non rendeva giustizia a quello audio-video. Ci consente di introdurre nuovi elementi nel dibattito aperto da Dazebao sulle riforme istituzionali. Di storicizzarlo, perché la “memoria “ è bene non perderla mai Interrogato dal coetaneo Scalfari, ha ripercorso a tratti la sua storia nel PCI esprimendo considerazioni e giudizi sui grandi dirigenti di quel partito: Togliatti, Amendola, Ingrao, Terracini, Di Vittorio, Berlinguer. A volte con commozione come quando ha ricordato il pianto di Di Vittorio che  non condivideva, pur subendola, la posizione del partito a sostegno dell’intervento sovietico in Ungheria nell’autunno del ’56 e il distacco dal partito medesimo, per gli stessi motivi, di Antonio Giolitti di cui Napolitano era amico ed estimatore. A Giolitti divenuto dirigente socialista senza mai diventare anticomunista, ci ha tenuto a ricordare il Presidente, rese merito in seguito riconoscendone la ragione. Anche su Togliatti Napolitano ha osservato la contraddizione fra l’uomo che, nel contesto internazionale storico-politico dell’epoca, non mise mai in discussione il riferimento di campo all’Unione sovietica, prima, durante e dopo Stalin, e la costruzione in Italia di un partito che mentre si definiva ideologicamente rivoluzionario era nazionale e democratico e sostanzialmente riformista nella pratica dell’azione politica.

Da Togliatti al “ memoriale di Yalta “

Anzi ha messo in evidenza una certa evoluzione nell’acquisire autonomia e visione critica del fondatore del “partito nuovo” culminata nel famoso “memoriale di Yalta”. In quel memoriale, come è noto, i dirigenti sovietici venivano richiamati al fatto che il socialismo “è il regime in cui vi è la più ampia libertà per i lavoratori e questi partecipano di fatto, in modo organizzato, alla direzione di tutta la vita sociale”. Il che nella realtà sovietica non era proprio. Napolitano ha ricordato pure che sebbene la fedeltà a Stalin da parte di Togliatti fosse indiscussa ciò non gli impedì sul finire del 1950 di rifiutare la proposta, che per l’epoca era poco meno di un ordine, di diventare segretario del neonato Cominform voluto dal dittatore sovietico nel periodo più duro della “guerra fredda”. Un diniego che, non sostenuto dalla direzione del suo partito che invece acconsentì, aveva lasciato solo Togliatti nel fronteggiare la potenza di Stalin.
Napolitano ha rammentato anche, tra l’altro, la sua diversa visione rispetto a Berlinguer dei governi di unità nazionale ’76-’79, pur condividendo col segretario comunista che l’aveva lanciata la  strategia del “compromesso storico”. Su questa questione merita che ci soffermiamo perché ci sarebbe, autorizzata dalle stesse dichiarazioni del Presidente delle settimane scorse durante le convulse giornate del dopo elezioni, una qualche connessione col tempo presente. La diversità di visione, dice Napolitano, nasceva dal fatto che mentre quei governi avrebbero dovuto affrontare in termini di unità nazionale i due problemi impellenti, la galoppante inflazione e l’incipiente attacco terroristico, Berlinguer caricava quell’esperienza di una spinta a grandi trasformazioni sociali, i famosi elementi di socialismo. “L’obiettivo – dice Napolitano – era superare la conventio ad excludendum … senza dissimulare tutto questo dentro un involucro ideologico” per cui “quella politica fu caricata di elementi un po’ mitici”. In effetti anche Moro  aveva una visione simile a quella del nostro Presidente.

 Il Pci portava con sé una missione trasformatrice

Tuttavia rendendosi conto che il PCI portava con sé, nel suo dna, una missione trasformatrice profonda non sfuggì al problema e nel famoso discorso di Benevento  del 18.11.1977 invitò i comunisti a delineare i contorni di “una società socialista che si asserisce  democratica”. E aggiungeva: “ Ma mi sia consentito di dire che i lineamenti di questa democrazia socialista (…) restano ancora indistinti, (…) sono intuizioni, sono stati d’animo, sono aspirazioni. (…) E allora noi siamo interessati a conoscere il punto di approdo di questa sperimentazione nuova, il frutto della mediazione fra internazionalismo proletario e via al socialismo, via autonoma al socialismo” anche se  “questo forse ci spinge lo sguardo troppo lontano (…) sono il domani ancora lontano”. Secondo il parere di chi scrive allora i comunisti persero l’occasione di chiarire a Moro e anche a se stessi, a causa di quell’involucro ideologico di cui parla Napolitano, che la società altra che perseguivano era né più né meno quella delineata nei precetti fondamentali della Costituzione repubblicana frutto di una “rivoluzione antifascista” di cui non a caso il “compromesso storico” doveva segnare una seconda e decisiva tappa volta a trasformare le strutture socioeconomico, almeno quelle essenziali, che avevano favorito l’avvento del fascismo. Quindi nel passaggio di unità nazionale del ’76 c’era da raccogliere, come era successo al momento della Liberazione e della nascita della Repubblica democratica, anche una domanda inevasa di riforme sociali e civili che solo in minima parte furono fatte o avviate. La riforma sanitaria, la legge 194 sull’aborto, la riforma dei servizi segreti, il varo della 285 che avviò all’impiego più di 600.000 giovani senza lavoro, la democratizzazione dei corpi militari con la legge 382/78 sulle rappresentanze nell’esercito e nei carabinieri e, più tardi, la 121/81 per la sindacalizzazione della polizia, la legge sull’equo canone, la legge 180 che aboliva i manicomi, la riforma dei patti agrari ecc. furono, insieme alla riduzione dell’inflazione, i frutti di quel breve periodo.

La proposta di progetto a medio termine

Non per niente il PCI affidò proprio a Napolitano la “proposta di progetto a medio termine” per rendere chiaro sul piano soprattutto economico, come egli stesso scriveva, “il concreto collegamento tra l’impegno, i sacrifici, il rigore, che si venivano sollecitando come condizione indispensabile per il superamento della crisi e la prospettiva di una trasformazione della società.” Tra questo e il pericolo di una sorta di perenne regime consociativo, come allora venivano presentati dagli avversari di destra e di sinistra sia il “compromesso storico” che i governi di unità nazionale, ce ne corre. La possibilità di un grande incontro fra le forze politiche antifasciste altrimenti definite, e non a caso, “arco costituzionale”, per alcune importanti riforme nasceva dalla comune responsabilità e fattura di una Costituzione che propugnava, promuoveva, richiedeva e favoriva la trasformazione sociale come compimento di una rivoluzione antifascista nata con la Resistenza. La cosa non era separabile dal superamento della conventio ad excludendum. Il sentiero per il passaggio era stretto, molto stretto, e infatti le forze popolari non passarono. Moro cadde assassinato sul campo. Ogni paragone con l’oggi, più volte richiamato ultimamente, è dunque fuori luogo. Attualmente il contendere non è fra forze unite da una comune premessa costituzionale; tutt’altro. Da vent’anni a questa parte lo scontro è con una spinta populistica quanto meno acostituzionale a cui si è già, sul piano della cosiddetta “costituzione materiale”, concesso troppo. Da ultimo l’ennesimo progetto di “commissione bicamerale” voluto dal governo Letta senza alcun mandato del corpo elettorale. Uno strappo costituzionale di “lunga intesa” che dovrebbe niente meno che revisionare i “Titoli I, II, III e V della Parte seconda della Costituzione, afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di Governo e del bicameralismo”. Diciamo la verità: nel ’76-’79 l’intenzione era quella di applicare la Costituzione mentre la “larga intesa” di oggi, espressa dal governo Letta, ha già cominciato a manometterla. Il Presidente Napolitano che della Carta è garante supremo e che, come dice nell’intervista a Scalfari richiamando un precetto di Einaudi, ritiene suo compito precipuo trasmettere intonse le prerogative presidenziali al successore, dovrebbe evitare ogni rischio che non intonse siano trasmesse anche quelle che la Costituzione garantisce al  popolo.

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