A due anni dalla storica manifestazione, Se non ora, quando? si interroga sul futuro

ROMA – “Gli ideali politici dei popoli oppressi possono essere soltanto la libertà’ e la giustizia; la loro forma organizzativa può essere soltanto democratica”. Leggere queste righe di Hannah Arendt, scritte durante l’esilio parigino, prima del suo soggiorno in America, parole che rimandano alla genesi del pensiero politico della scrittrice ebraica, suggerisce una chiave interpretativa valida per la lettura dei fatti, anche dell’oggi. 

Dunque, ad esempio, del grande tema della condizione della donna in Italia e nel mondo, orizzonte, quest’ultimo, cui fare riferimento per una migliore comprensione del processo di ripresa di protagonismo del movimento delle donne. Processo che, qui da noi, ha visto un’insperata quanto necessaria rivitalizzazione con la corale reazione salita dal Paese alla definitiva presa d’atto della mortificazione della persona-donna dilagata in misura via via crescente, oltre ogni sopportabile limite, negli ultimi 20 anni, sotto l’egemonia ‘culturale’ del centrodestra italiano e del suo capopopolo Berlusconi.

Parliamo di quella fiammata di indignazione che va sotto il nome di Se non ora, quando?
Era il 13 febbraio del 2011 quando ad un appello di mobilitazione lanciato da un nutrito gruppo di donne impegnate nella cultura, nel sindacato, nell’associazionismo di genere e nella politica giunse una risposta tanto grande, forte, diffusa, da appuntare quella data come l’inizio di un nuovo cammino delle donne italiane.
Una avvertita sensibilità ha da allora pervaso i luoghi della politica, delle decisioni, delle scelte. Con pochi risultati ascrivibili ad una nuova agenda women oriented e, ancor più, ad un assetto più democratico della nostra ‘cosa pubblica’. Ma con l’innegabile merito, anche grazie al cambio di governo, di aver quantomeno rimesso in asse quel piano inclinato lungo cui continuavano a scivolare il ruolo e l’immagine femminile in un inarrestabile declino della dignità pubblica e privata delle donne. Un degrado percepito e risultato indigeribile anche a molte delle sostenitrici ed elettrici del tycoon e, nondimeno, a molte delle stesse esponenti del suo partito. 
Non ha mai avuto vita facile Snoq con il suo Comitato promotore, lievitato via via – mediante cooptazione – fino al pletorico numero di 40 ed oltre. 
All’entusiasmo incontenibile della prima e della seconda ora, dal lancio dell’appello alla fase euforica del postmanifestazione di piazza del Popolo a Roma, alla conseguente proliferazione di bandierine di Snoq disseminate sull’intero stivale con la nascita di Comitati territoriali, era seguita, nel breve giro di mesi, un’insistente domanda di più netta definizione identitaria e, accanto ad essa, la richiesta di una continuità d’azione politica cui l’embrionale movimento nel suo complesso e, nello specifico, il suo ‘vertice’ – raccolto perlopiù intorno a poche singole personalità del mondo culturale – non erano pronti a fornire. 

Ma il treno del nuovo femminismo era oramai lanciato sul binario ad alta velocità e, sospinto da una corrente divenuta impetuosa, prometteva di non arrestarsi se non dinanzi ad una apprezzabile inversione di quella tendenza alla marginalità, all’irrilevanza, quando non alla mercificazione del corpo delle donne e delle donne stesse, troppo spesso salite all’onore della cronaca come merce di ‘scambio’ e di ‘premiazione’ della fedeltà politica, al pari delle tangenti o dei benefits aziendali. 
Il bilancio dei due anni del movimento, o rete di Snoq, mostra luci ed ombre. Un faro si è acceso soprattutto sull’aspetto eminentemente culturale e di mentalità delle donne stesse che, seppur non ancora di massa, ha toccato molti degli ambiti dell’attività delle donne. Con un primo dato assolutamente positivo e per niente disprezzabile sul piano della rappresentanza politica – affermatosi su un terreno già dissodato da anni di impegno di altre associazioni – dell’irruzione della doppia preferenza di genere per le elezioni amministrative che, sebbene al di sotto delle aspettative, ha comunque registrato molte più donne che in passato nei Consigli regionali, comunali e circoscrizionali. 
Ma è sul piano dell’accresciuta consapevolezza di quella che si configura come una ‘segregazione’ nella vita sociale e lavorativa, o nell’esclusione dall’effettiva rappresentanza politica, istituzionale, dei corpi sociali intermedi che il nuovo corso italiano ha fatto centro. Indagini specifiche, ricerche, studi e comparazioni con altri paesi sono entrati, anche grazie ad un’informazione più attenta (la femminilizzazione del lavoro nelle redazioni e nel sistema dei media e della comunicazione è dato acquisito da tempo) si sono affiancate alle normali rilevazioni statistiche evidenziando ad una platea sempre più ampia di donne e di uomini quel ritardo storico e quel gender gap la cui gravità ed anomalia erano rimaste fin lì relegate ad organizzazioni, associazioni o gruppi che di questa stortura del sistema democratico e della sua denuncia avevano fatto la loro ragion d’essere. 
Ecco, Snoq ha come sdoganato un dibattito rimasto suo malgrado asfittico e fatto affiorare quella coscienza rimasta fin li silente in tante donne estranee ai movimenti esistenti. Tutto merito di Snoq? No di certo! Le donne, giovani e meno giovani, mobilitatesi il 13 febbraio nelle città come nella provincia italiane erano pronte, e in buona misura già presenti in un movimento diffuso, come in attesa di un segnale! E da allorahanno proseguito a gremire, con una propria caratterizzazione, le piazze, i palazzetti dello sport, i convegni, le assemblee rivendicando i loro diritti e indicendo proprie iniziative pubbliche, costruendo loro ‘piattaforme’ e, in definitiva, imponendo una nuova, diversa, lettura dei fatti del Paese. 

È stata conseguenza non eludibile, percio’, che all’Assemblea nazionale del 1° e 2 giugno scorso i Comitati territoriali di Snoq ascendessero al governo del movimento. Favoriti, in ciò, dal saggio sostegno di una parte consistente del Comitato promotore, nel frattempo logoratosi in diatribe interne definite, da entrambe le parti in conflitto, “non piu’ sanabili”

E tornano le parole della Arendt: la forma organizzativa – insistentemente al centro della vivida discussione dei primi di giugno – di un popolo ‘oppresso’, qual è quello delle donne, non può che essere democratica. Faticosamente ed inesorabilmente democratica. 

Quanto agli ideali di libertà e giustizia, il confronto rimane aperto. E sarà tema appassionante, c’è da crederci, dell’Assemblea generale di fine settembre e del Coordinamento dei Comitati territoriali o tematici -fra i quali ricomprendere i due tronconi nei quali il comitato promotore oggi si riconosce, quello di Snoq Libere e il neonato Snoq Factory- convocato per metà luglio. 
Dopo gli stop and go della fase ‘adolescenziale’ e il bagno democratico che ha generato la pur perfettibile forma organizzativa, Snoq non ha alternative: deve imboccare la strada di una nuova cultura politica, deve costruire una visione ed una credibilità nuove, generare alleanze, definire nuovi percorsi di azione ed iniziativa pubblica. Lo deve alle donne. A tutte le donne.

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