Il tramonto del ceto medio

ROMA – Per far parte di una classe sociale, non basta farne parte per ceto o professione esercitata. E’ necessario anche essere convinti di appartenere a quella classe sociale. Quello che è avvenuto, negli ultimi trent’anni nel nostro paese, è un grande cambiamento socio-antropologico, oltre che economico, e che ha segnato un fenomeno che tutti hanno potuto osservare cioè il declino della grande fabbrica industriale e di conseguenza il declino della borghesia urbana e industriale che (ricordiamolo) ha determinato, più o meno  mezzo secolo fa, il decollo dell’Italia industriale e il suo ingresso nei club più esclusivi del mondo contemporaneo.

Ora le cose nel paese Italia sono profondamente cambiate e c’è stata negli ultimi decenni e fino ad oggi e a domani (?) l’affermarsi di una piccola borghesia che è balzata sulla scena non soltanto italiana ed europea ma anche degli Stati Uniti d’Europa, come mostrano le indagini di Pew Research Center che indicano una diminuzione tra quelli che si identificano nel ceto medio dal 53 per cento nel 2008 al 44 per cento nel 2014. Il ceto medio-come può testimoniare chiunque conosca la storia politica dell’ultimo trentennio nel nostro paese – è stato a lungo un ceto sociale sprovvisto di rappresentazione sul piano politico e culturale. Non potevano certo dargliela i due grandi  partiti di massa, DC e PCI, integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale.

Ancora nel 2006 – come ha rilevato Ilvo Diamanti – un sociologo attento, a differenza di alcuni suoi colleghi, a questi aspetti, secondo un’indagine precisa della Demos-Coop, quasi il 60 per cento della popolazione italiana si autocollocava tra i ceti medi. Il 28 per cento nelle classi popolari (ceti, medio-bassi). Il 12 per cento nelle classi più elevate. L’Italia media aveva radici profonde impiantate  nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60 per cento degli operai si sentiva ceto medio.

In Italia, a differenza di quello che è successo negli Stati Uniti per ragioni che ci vorrebbe molto altro spazio a spiegare, l’ascensore sociale si è inceppato in pochi anni. Coloro che si sentono ceti medi (Sondaggio recente Demos-Fondazione Unipolis) sono oggi in Italia una  minoranza per quanto ampia, poco più del 40 per cento.
E un paese il nostro, attraverso da grandi diseguaglianze e da un fenomeno corruttivo che, secondo le ultime stime della commissione europea,vale 60 miliardi,il 4 per cento del Prodotto industriale lordo nazionale, la metà del totale europeo. Dove l’ultimo sondaggio Demos-Fond. Unipolis ritiene che le differenze fra chi ha poco e molto siano notevolmente aumentate.”

Quanto ai lavoratori autonomi si considera ceto medio meno del 40 per cento di loro.Oltre il 50 per cento si considera invece di classe medio-bassa. Le stesse misure si osservano nel Nord,la cui distanza sociale rispetto al Mezzogiorno sotto questo profilo appare molto ridotta.Anzi il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale nel Nord-Est è superiore rispetto al Sud.
Scrive Diamanti, e sono d’accordo con lui, che si realizza così il “declino dell’Italia media e cetomedizziata con il brusco risveglio dal sogno italiano interpretato dal berlusconismo.
Poter diventare tutti padroni almeno di se stessi. Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire e non si parla più di questione settentrionale né di quella meridionale.

Alla fine dei numeri e delle tabelle estratte dagli ultimi sondaggi di società serie, e abituate a lavorare in maniera molto fondata, mi viene da chiedermi se la profonda crisi in cui versano i nostri istituti di istruzione ad ogni livello dopo i massicci e ripetuti tagli che li hanno colpiti non abbia avuto e continui ad avere una indubbia influenza sul ristagno economico italiano e sul processo descritto da Diamanti e verificato da tutti gli osservatori stranieri nell’ultimo quindicennio. Io credo di sì, come ha già scritto qualche mese l’amico linguista Tullio De Mauro un legame esiste tra il declino culturale del nostro paese e quello economico e sociale.

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