Obama, gli errori del guerriero riluttante

ROMA – Se c’è uno cui le guerre non sono mai piaciute, questi è Barack Obama. Non a caso, sia pur in maniera intempestiva ed eccessivamente precipitosa, fu insignito, dopo pochi mesi dall’insediamento alla Casa Bianca, addirittura del premio Nobel per la Pace. Gli bastò un discorso all’università del Cairo per riscattare l’immagine degli Stati Uniti dopo otto anni di “dottrina Bush”, apparendo agli occhi del mondo come un presidente colto e consapevole della necessità di tendere la mano al cuore dell’islam per porre fine alla guerra di religione strisciante che aveva insanguinato l’intero decennio.

Purtroppo per lui, a cavallo tra la conclusione del primo mandato e l’inizio del secondo, ha avuto la sventura di incappare in una serie di crisi internazionali che non gli hanno permesso di rimanere indifferente, benché la sua posizione a proposito delle “primavere arabe” e della carneficina siriana sia stata assai più defilata rispetto all’interventismo di alcuni dei suoi predecessori, tanto in campo democratico quanto in campo repubblicano.

Di fronte all’avanzata dello Stato Islamico e dell’autoproclamato califfo al-Baghdadi, però, persino un intellettuale riluttante come lui si è visto costretto ad indossare i panni del guerriero e a dichiarare una guerra senza quartiere, fino alla distruzione e all’annientamento totale, nei confronti di questi nuovi protagonisti del terrore internazionale che affermano di voler distruggere ed estirpare i valori stessi sui quali si fonda l’Occidente.

Il guaio di questo improbabile “war president” è che, come ha scritto Vittorio Zucconi su “la Repubblica”, “ha messo la testa per necessità, ma non il cuore per convinzione, in una guerra che non avrebbe voluto mai combattere”. Tuttavia c’è dell’altro e lo ha ben espresso il presidente iraniano Rohani all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: “È il colonialismo che ha causato, assieme al razzismo, quel sentimento anti-occidentale che oggi pervade molti”.

Perché è inutile negarselo: il califfo al-Baghdadi delira e compie azioni aberranti ma non possiamo scrollare le spalle e far finta di niente di fronte all’evidenza di una massiccia partecipazione alla jihad da parte di ragazzi nati e cresciuti nelle nostre città e nei nostri quartieri, nostri vicini di casa, magari nostri amici sui social network che, proprio attraverso questi miti e questi vanti dell’Occidente, sono entrati in contatto con coloro che li hanno instradati verso la guerra santa contro gli “infedeli”.

Come non possiamo restare indifferenti di fronte alla considerazione di puro buonsenso che, fatti salvi i nostri valori fondanti, il nostro modello sociale e democratico da troppo tempo non funziona ed è vissuto dalla maggior parte della popolazione come iniquo, vessatorio e abietto, facendo registrare in questo una preoccupante consonanza fra le critiche mosse dagli estremisti e le obiezioni sollevate da chi, da anni, si oppone allo strapotere arrogante del sistema liberista in economia, con annesso indebolimento dello stato sociale, dei diritti, delle tutele e, di conseguenza, della dignità e della sicurezza della persona che lavora.

Perché, posto che nessun crimine dell’IS è minimamente giustificabile e che è senz’altro apprezzabile la scelta di Obama di combatterlo attraverso un’ampia coalizione di paesi, comprendente innanzitutto i diretti interessati della regione mediorientale, posto tutto questo, è legittimo domandare al presidente degli Stati Uniti se non pensi, a sua volta, che gli “jihadisti della porta accanto” non possano essere liquidati come quattro invasati dalla mente fragile ma vadano, al contrario, inquadrati nell’ottica globale di una critica aspra e non priva di fondamento allo stravolgimento e alla distruzione sistematica che noi stessi stiamo realizzando dei valori sui quali un tempo si basava la nostra convivenza civile.

Al tempo stesso, è legittimo domandargli se non crede di aver preso troppo alla leggera i rischi derivanti da un attacco simultaneo all’IS, ossia ai combattenti dello Stato Islamico, e a Kkorasan, costola di Al Qaeda, col pericolo che queste due forme di barbarie si saldino e diano vita a un assalto concentrico ai danni dell’Occidente, la cui probabilità è purtroppo ritenuta molto elevata in segno di reazione ai bombardamenti americani e al sostegno della vasta coalizione impegnata al loro fianco.

Senza contare l’ambiguità della posizione del presidente-premio Nobel in merito ai rapporti con l’Iran e il suo governo e con il governo di Assad, ricordando che il primo è stato considerato per anni uno “stato canaglia” mentre contro il secondo, appena un anno fa, Obama avrebbe voluto scatenare un’offensiva per punirlo per i presunti crimini di guerra compiuti ai danni degli oppositori e dei civili inermi.

Al che, si rafforza in noi un dubbio che nutriamo da tempo, e cioè che Obama sia stato un buon presidente per quanto concerne la politica interna, la ripresa dell’economia e gli investimenti pubblici grazie ai quali oggi l’America vola a livelli per noi impensabili ma che, al tempo stesso, in politica estera sia stato, quanto mai, titubante e inadeguato, privo di una strategia politica chiara e credibile e incapace di venire a patti, o anche solo di stipulare qualche accordo sensato, persino con gli storici partner continentali.

In poche parole, Obama ha commesso l’imperdonabile errore di voler anticipare troppo il futuro, volgendo lo sguardo a Oriente e pensando di poter fare a meno dell’Europa, relegata nei suoi pensieri a un ruolo marginale e di mero appoggio in virtù degli antichi legami d’amicizia e collaborazione. Questo atteggiamento lo ha portato a sbagliare quasi tutto: dalla sottovalutazione dei movimenti tellurici a ovest di Mosca, nella fascia degli ex satelliti sovietici, alla mancata richiesta di un intervento simile a quello americano per far fronte a una crisi che sta strangolando i disperati paesi del Mediterraneo, con conseguenze imponderabili per i falchi rigoristi del Nord-Europa ma anche per gli Stati Uniti, dato che in un mondo globale e interconnesso come il nostro il crollo della domanda aggregata ha ripercussioni che vanno ben al di là del singolo paese interessato.

Anche per questo, oggi che ne avrebbe più che mai bisogno, si trova a dover fare i conti con un’Europa troppo fragile, lacerata e in preda a spinte centrifughe e riviviscenze nazionalistiche per supportarlo in una lotta dalla quale dipende l’esito e il giudizio complessivo sulla sua presidenza nonché, volendo essere retorici, il suo posto nella storia degli inquilini della Casa Bianca.

Continuando a sognare un mondo che non c’è, Obama ha finito col rimanere intrappolato nelle spire di quello reale che oggi ci mostra l’immagine di un’America che ha perso il suo antico ruolo di guardiano della democrazia e non riesce a trovarne un altro, in quanto l’affermarsi del G2, tanto caro all’attuale presidente, presuppone da parte degli statunitensi il riconoscimento definitivo e permanente del passaggio a un mondo multipolare, con la palese contraddizione di una volontà di potenza trasformatasi, per eterogenesi dei fini, in un’ammissione di debolezza.

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