Il Cinghiale, disastri preannunciati e precauzioni disattese

ROMA – Che il cinghiale rappresentasse un problema italiano ed europeo per i danni alle produzioni agricole era già noto.

Meno note al grosso pubblico, erano le aggressioni nei confronti dell’uomo che si determinano in particolari condizioni; il caso di Cefalù è  l’esempio più drammatico. In realtà questo aspetto è ben noto ai cacciatori che spesso hanno contatti “di primo tipo” con la specie; le mute di cani specializzate,  subiscono per mortalità, diretta o indotta, “avvicendamenti annuali” che rientrano tranquillamente nell’ordine dell’80-90%, tanto da supportarne un fiorente mercato.  Altro aspetto meno noto e che l’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), pone il cinghiale tra le specie mondiali più invasive e tra quelle che, in alte o innaturali concentrazioni, provocano impatti negativi sugli ecosistemi. 

Ma a cosa è dovuto l’aumento dei cinghiali? Alla fine dell’analisi daremo una risposta (banale!). I ripopolamenti a scopo venatorio, sono iniziati alla metà degli anni ’50; periodo di minima presenza storica accertata per la specie. Perché questi avessero l’effetto che conosciamo in Italia si è dovuto attendere la concretizzazione di alcuni presupposti; tra questi: la disponibilità di ambienti idonei (il cinghiale e specie forestale con alto grado di adattabilità ad altri ambienti); la disponibilità di “surplus” alimentare; la disponibilità di aree idonee con assenza di disturbi (es.: la caccia ma non solo). Il primo passo fu mosso con lo spopolamento degli Appennini (dagli anni ’50) e una conseguente ripresa dei boschi di alta collina e montagna, dovuta al mancato sfruttamento; il secondo presupposto si è concretizzato a partire dalla metà degli anni ’70 con l’aumento dell’efficienza delle produzioni agricole che hanno reso disponibile una fonte alimentare eccedente ed accessibile per la specie; il terzo è maturato a partire dagli anni ’80, con l’istituzione di vaste aree di divieto di caccia. Oasi, Riserve Naturali, Parchi Regionali si sono affiancati a quelli preesistenti e ad altre aree non solo destinate alla tutela (es.: aree militari, ecc.). Tutto questo era noto ed era stato preannunciato da ricercatori (zoologi ed ecologi), con una ricca letteratura scientifica sull’argomento, convegni e seminari già 25 anni fa.

I primi a subire gli effetti della presenza del cinghiale sono state proprio le aree protette che i cinghiali usano come “aree rifugio” durante il periodo venatorio (novembre – gennaio). Qui le densità possono superare il facilmente l’incremento del 300% in inverno per poi ridistribuirsi sul resto del territorio terminata la caccia. Si possono  immaginare le conseguenze in queste aree in termini di danni all’agricoltura, di incidenti stradali e sugli  stessi ambienti che si vorrebbe conservare. Non discuteremo qui dei problemi di sanità.

L’aumento degli individui ha procurato successivamente una rapida colonizzazione del cinghiale anche in aree dove la specie non era attesa, compresi i grandi centri urbani. Citiamo due esempi per tutti: Genova in area urbana; Roma in molte aree periferiche e peri-urbane. Direte voi: ma non bastavano Buzzi e Carminati? Fatto sta che proprio i parchi cominciarono (subito?) a predisporre piani di controllo/contenimento e che, sottolineiamo, nulla hanno a che fare con la caccia. Chi paragonerebbe la caccia a un topo ad un piano di derattizzazione? 

La legge sulla caccia regola nei fatti un’attività “ludico-sportiva” e non certo le emergenze. Inoltre demanda alle regioni molti dei provvedimenti sull’argomento. Sulla base delle indicazioni dell’ISPRA (Istituto Per la Ricerca Ambientale) e con una normativa nazionale inadatta, le regioni hanno iniziato (alcune bene), a metter giù provvedimenti di “alta scuola ingegneristico-legale”, ma che allo stato dell’arte hanno procurato solo due effetti: l’aumento dei cinghiali e del contenzioso. Che il tasso di colonizzazione del cinghiale sia più rapido dei provvedimenti che lo riguardano è un fatto. Ma questi ultimi hanno anche mal disposto le categorie direttamente interessate. 

Da una parte gli agricoltori che subiscono danni alla produzione, indennizzati con soldi pubblici: nel solo Lazio l’ordine dei danni accertati e non liquidabili e valutabile nell’ordine dei milioni di euro; dall’altra gli animalisti che ostacolano con ogni mezzo legale i piani di contenimento che prevedano la soppressione dei cinghiali; infine i cacciatori che vedono a rischio una delle principali risorse venatorie. Situazione critica se non esplosiva. Gli intoppi non si fermano qui spesso avvengono anche all’interno delle stesse regioni. Un esempio  viene dall’area protetta “forestale”, sita nel Comune di di S. Oreste (RM). Questa si trova da anni con alte densità di cinghiali. I danni all’agricoltura però non avvengono nell’area protetta,  ma alle coltivazioni che sono immediatamente adiacenti al perimetro del parco. 

I cinghiali, si ricoverano di giorno nel parco per evitare la caccia e si alimentano di notte, quando la caccia è vietata, nei campi adiacenti. Non ostante l’evidenza, l’agenzia regionale preposta, per qualche valido quanto oscuro motivo, non ha autorizzato il piano di catture predisposto dall’ente parco. Risultato: oltre agli incidenti stradali e ai danni all’agricoltura ora, i cinghiali, hanno preso a frequentare regolarmente il paese di S. Oreste (foto iniziale). Questo è solo un episodio di una lunga serie che dimostra, crediamo indiscutibilmente, che sono le norme e la loro applicazione a lasciare “spazi fisici” all’aumento dei cinghiali e alle conseguenze connesse. Norme che arrivano ad auto-smentirsi e censurano anche le ovvietà.

Quindi arriviamo a quella risposta (banale!) alla domanda iniziale. A cosa è dovuto l’aumento dei cinghiali, o meglio a chi è dovuto? Proprio ai politici. Attenzione, non alla politica. È dovuto a tutti quei politici che in 25 anni (non giorni) hanno disatteso quelle precauzioni per prevenire un problema scientificamente annunciato; certo per motivi seri e fondati, ma quelle precauzioni sono e restano disattese. Ridurre il numero di cinghiali in Italia oggi è certamente più difficile rispetto a 25 anni fa, ma non è tecnicamente impossibile. Nella speranza di venir smentiti dai fatti lasciamo a ciascuno la libertà di tirare le proprie conclusioni.

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