“Io non credo nel Jobs Act di Renzi.” Parola di un giovane disoccupato nella media

Dopo gli ultimi squilli di tromba succedutisi al grido demagogico “L’Italia c’è!”, è ora di dire basta a quel clima di surreale ottimismo con cui ci infarcisce la politica renziana

ROMA – Anzitutto, chiamiamola “riforma del lavoro”. Il mondo è già colmo oltre misura d’anglicismi e tecnicismi di dubbia comprensibilità. Lungi dall’essere un campione in lingua inglese – gaffe e strafalcioni potrebbero riempire antologie e zibaldoni della peggiore risma –, la nostra classe politica ne abusa sistematicamente, col risultato di allontanarsi non solo da quella fetta di elettorato ancora smanioso di votare (quando può), ma anche dalla maggior parte degli Italiani. Un tempo, “popolo di santi, poeti e navigatori”; ora un battaglione di cittadini stanchi, disillusi, spesso ignari, talvolta ignorati. Ma soprattutto stufi.

Una volta superato il dilemma linguistico, accantoniamo anche il problema della cronica mancanza di preparazione culturale (di base) che attanaglia i beniamini delle poltrone e degli scranni dello Stivale. Una battaglia persa in partenza.

Parliamo, invece, di benefici millantati e di dati effettivi. Della creatura preferita di Renzi, s’intende.

Mentre le circolari del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dilagano nel tentativo di chiarire ciò che l’unione fra burocratese e politichese ha partorito, idealmente si cerca di puntellare – a suon di parole travestite da numeri – le recenti dichiarazioni rilasciate dal patron della riforma contestata.

All’indomani della pubblicazione delle rilevazioni Istat sull’andazzo nel mondo del lavoro, dal suo mezzo di comunicazione preferito (Twitter, NdA), il presidente del Consiglio fa sapere ai suoi seguaci internauti che “la disoccupazione continua a scendere, oggi [7 gennaio 2016] 11,3%, è dimostrazione che #jobsact funziona. L’Italia che riparte, riparte dal lavoro #lavoltabuona”. Papale papale, questo è il messaggio di Renzi, social media premier e hashtag addicted. Un modo di fare politica da salotto televisivo, da passerella mediatica, da piccolo schermo sempre pronto a inquadrare una fiducia che, stringi stringi, in realtà non c’è. Ma latita. Un po’ come quella politica realmente informata sui fatti che tutti noi, poveri mortali, sogneremmo.

Scende il tasso di disoccupati, questo è vero, tanto da toccare i minimi “storici” da tre anni a questa parte (i dati considerati sono relativi al periodo novembre 2012-novembre 2015). Un trend incontestabilmente in discesa ma, ahimè, tutto a vantaggio di chi possa vantare tre caratteristiche fondamentali: essere maschi, adulti, oltre che over 50. Se si è in possesso di questi doni – oro, incenso e mirra de’ noantri –, allora le porte saranno più aperte, le strade un po’ più battute e le vie un po’ meno impervie. Sia lodata l’esperienza maturata durante i trent’anni precedenti.

Tuttavia, “l’Italia che riparte” – quella tanto decantata e sorseggiata da Renzi – è anche quella dove cala il numero di persone in cerca di occupazione e aumenta quello di chi invece si rassegna e, a malincuore, smette di sperare. Nella migliore delle ipotesi, si dispera; a volte urla, conscia di essere succulenta carne da campagna elettorale. Un bacino di voti non indifferente in un Paese in cui la stima degli inattivi rimane sostanzialmente invariata, ristagnando a un drammatico 36,3% della forza lavoro disponibile tra i 15 e i 64 anni. Sono proprio loro, questi scansafatiche,quelli tacciati di vittimismo e autocommiserazione dai buontemponi della politica nostrana.   

E così, come se non bastasse, il tenore della beffa si allarga. Tanto che l’Italia de #lavoltabuona (si scusi l’obbrobrio di forma) è anche quella che dà i natali a una disoccupazione giovanile spaventosa, impressionante nei numeri, anche se in calo di 1,2 punti percentuali su ottobre, attestandosi a 38,1% fra i giovani in fascia 15-24 anni. Una percentuale mai così bassa dal giugno 2013, eppure la più alta nell’Eurozona dopo Grecia (49,5%), Spagna (47,5%) e Croazia (45,1%).

Insomma, i giovani italiani del XXI secolo non vogliono più rimboccarsi le maniche? Preferiscono marcire parcheggiati all’università, in preda alla sindrome da mammite acuta? Ebbene, la risposta è tutt’altro che positiva. Anzi. Questi giovani sono i figli di una bolla formativa enorme, un problema strutturale che sarebbe demagogico minimizzare unicamente a fronte della diminuzione dei contratti a progetto, di quelli a intermittenza e/o a chiamata, dei co.co.co, dei CTD e dei tirocini-capestro. Tutti ladrocini unanimemente istituzionalizzati, almeno a detta di chi vi si è sottoposto, volente o nolente.

Ora, si crede che il contratto a tutele crescenti sia la chiave di volta, la boccata d’aria fresca che il nostro asfittico mercato del lavoro attendeva da tempo. Questo perlomeno nelle convenzioni dell’esecutivo, che dà prova ancora una volta di considerare la situazione non nella sua totalità, ma ragionando per compartimenti stagni. E impermeabili.

In concomitanza con numeri di crescita ben lontani dalle previsioni di PIL elaborate dall’istituto di statistica e dallo stesso governo, l’Italia appare sempre più come un Paese per vecchi. Con una forza lavoro notevolmente invecchiata e un contestuale calo degli occupati con meno di 35 anni d’età: un dato che risulta particolarmente pesante per la fascia di persone tra i 25 e i 34 anni, con quasi 1,8 milioni di lavoratori in meno in dieci anni e un calo del tasso di occupazione dal 69,7% al 59,4%.

Sono proprio loro i figli dell’università di massa. Sono loro che il più delle volte devono sgomitare per frequentare corsi a numero chiuso slegati dal mondo reale, che formano competenze prive di corrispondenza nel mare magnum della domanda interna. Sono loro che, una volta usciti più o meno indenni dal Sistema, vanno incontro a prospettive di lavoro e di retribuzione inferiori alle aspettative. Sono loro che vanno a rimpinguare le file del precariato vitalizio, con un titolo di studio in una mano e un sapere altamente volatile nell’altra. Sono loro che, dopo migliaia di euro spesi da mamma e papà per garantirgli un futuro migliore, sono costretti a lavorare per lunghi periodi gratuitamente, spesso senza nemmeno un rimborso spese. Dicono sia “per farsi un nome”, “per farsi le ossa”, “per fare esperienza”. E sono loro, sempre loro, a ringraziare lautamente quei pochi (pochissimi) benefattori che gli consentono di farlo.

Tutto questo accade, mentre grida d’entusiasmo si levano all’interno di un’élite che s’infiamma a fronte di uno 0,1-0,2 punti percentuali di scarto in più. Dimenticando che, dietro a simboli scelti per convenzione, ci sono storie di frustrazione e disperazione. Che, dietro ai risultati più o meno opinabili del Jobs Act, c’è un Paese che langue, un universo di giovani che faticano a trovare opportunità. Risorse disgustosamente sprecate e vergognosamente buttate al vento.

E i noti tagli alla spesa pubblica riservati a scuola e istruzione superiore suggeriscono quasi una certa acquiescenza da parte del Potere (volutamente estraneo alla questione?).

Insomma, è facile appigliarsi a dati statistici di comodo. Ed è ancora più semplice cadere preda di una propaganda ingannevole, mentre agire con tempestività diviene sempre più un imperativo morale, oltre che una necessità economica improcrastinabile.

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