Ricostruire L’Ulivo si può e si deve

ROMA – La prossima settimana, a San Martino in Campo, nel verde della campagna perugina, la minoranza dem si ritroverà per una tre giorni che si pone come obiettivo principale quello di gettare le basi per la costruzione di un’alternativa al renzismo e al progetto, ormai neanche troppo celato, di dar vita a un indistinto Partito della Nazione sostenuto da tutti gli epigoni del berlusconismo che fu.

Un’iniziativa lodevole, da seguire e osservare con rispetto, in quanto bisogna dare atto a Bersani e Speranza di non starsi comportando affatto come scudieri di Renzi e, anzi, di aver rinunciato a posti di prestigio pur di difendere le proprie idee e la propria visione del mondo. Chapeau e grazie, in una stagione nella quale troppi hanno indossato una maschera, cambiato casacca, esibito toni e atteggiamenti arroganti e, soprattutto, svenduto la propria anima, le proprie radici, le proprie tradizioni storiche e culturali per un piatto di lenticchie o, per meglio dire, per una poltrona di governo o di sotto-governo.

Detto questo, è bene passare adesso alla parte critica del nostro ragionamento perché, se è vero che la minoranza bersaniana sta assumendo posizioni nette e condivisibili su molte questioni, è altrettanto vero, ed è un contrasto stridente, che né l’ex segretario né colui che si candida in opposizione a Renzi (o, più probabilmente, alla Boschi) al prossimo congresso hanno ancora assunto una posizione chiara in merito al referendum costituzionale che si svolgerà in autunno.
Questo ritardo, a nostro giudizio, è frutto di un errore di valutazione: Bersani e Speranza ritengono infatti che un’eventuale, e probabile, insuccesso del PD alle Amministrative potrebbe portare a un ridimensionamento del renzismo, ossia, questo è il loro auspicio, a una discesa dal carro non più trionfante di coloro che, in buona fede, hanno sventolato per anni la bandiera renziana, con l’obiettivo di servirsi della sua esuberanza per condurre una sinistra rinnovata e ulivista al governo del Paese. Potrebbe anche accadere, non è da escludere, in quanto siamo coscienti del fatto che il malessere interno al partito, specie da quando Denis Verdini ha gettato definitivamente la maschera ed è passato a sostenere l’esecutivo votandogli apertamente la fiducia, è elevato e che molti renziani di un tempo cominciano a ritenere insostenibile questa deriva a destra, verso un ibrido polpettone paludoso che annulla ogni differenza, spegne ogni passione politica e distrugge un patrimonio storico fatto di militanza, impegno e partecipazione gratuita e disinteressata che non può essere in alcun modo sostituita dal trasformismo parlamentare di un gruppo di transfughi sulla cui coscienza pesa il sostegno a tutti i disastri verificatisi nel corso del ventennio berlusconiano.

A suffragare questa tesi provvede anche l’attivismo del fondatore del PD: quel Veltroni che, pur essendo stato uno dei primi sponsor di Renzi, ha di fatto benedetto la candidatura a Roma di Morassut per contrastare il progetto del Partito della Nazione che, a suo dire, non ha nulla a che vedere con la vocazione maggioritaria di una sinistra moderna e riformista.

Allo stesso modo, non è un caso che un renziano doc come Matteo Richetti, antemarcia della Leopolda e fra i pochissimi dirigenti emiliani a far professione di renzismo quando in quella regione il bersanismo più che una visione politica era quasi una fede, anche Richetti da qualche tempo manifesta una certa insofferenza nei confronti di un leader del quale è stato amico per anni ma nel quale adesso fatica a riconoscersi. Per dirla con benevolenza, siamo al cospetto di uno dei tanti illusi che, con un tocco di ingenuità superiore alla dose consentita a chi si occupa di politica, credeva davvero che Renzi avesse in mente di dar vita a un ulivismo maturo e al passo coi tempi, mandando in soffitta il trattino fra il centro e la sinistra e dando uno scossone a un ambiente provato da una lunga e non sempre fruttuosa opposizione al berlusconismo e, più che mai, dal sostegno esagerato a un esecutivo tecnico che ha causato quasi solo disastri, favorendo l’ascesa del grillismo e conducendo il PD alla “vittoria mutilata” del 25 febbraio 2013.

Passi la defenestrazione in malo modo di Letta, passino i toni non certo ortodossi del nuovo segretario-premier, dominus della politica italiana a neanche quarant’anni, passi anche la sua dose elefantiaca di populismo, che un po’ gli viene naturale e un po’ gli serve in funzione anti-grillina e anti-salviniana, passi persino l’incapacità di instaurare un rapporto di proficua collaborazione e, se necessario, pure di confronto serrato ma maturo con i sindacati e le associazioni di categoria, passi tutto, ma l’ingresso di Verdini e del mondo che fu cosentiniano, cuffariano e, in poche parole, turbo-berlusconiano deve essere sembrato troppo anche all’illustre Richetti, ispirato in questa visione da un altro alfiere del renzismo caduto in disgrazia quale il ministro Delrio.
Fin qui, dunque, anche noi seguiamo il ragionamento di Bersani e Speranza. Dove dissentiamo è, invece, sui passaggi successivi. Perché Renzi, a nostro giudizio, dopo ciò che è accaduto a Roma, con la fine traumatica, voluta in primis proprio dal presidente del Consiglio, della giunta Marino, e dopo il disastro della classe dirigente campana, incapace di selezionare una candidatura in grado non diciamo di vincere ma, quanto meno, di sfidare apertamente De Magistris a Napoli, Renzi, che non è uno stupido, ha messo in conto che le Amministrative andranno mediamente male, con una probabile vittoria solo a Milano e due successi, a Bologna e a Cagliari, che, data la natura dei candidati (l’uno bersaniano, l’altro di Sinistra Italiana), farà fatica ad intestarsi. 

Il suo vero obiettivo, dichiarato già nella conferenza stampa di fine anno, è il referendum costituzionale, in occasione del quale punta a far nascere la Coalizione della Nazione, ossia un minestrone centrista nel quale il PD, magari previa revisione dell’Italicum, sarà affiancato da tutti i reduci del berlusconismo che già scaldano i motori e pregustano posti e poltrone.

Al che, ci sembra evidente che questo progetto renziano non sia solo incompatibile ma addirittura antitetico al giusto proposito della minoranza dem di ricostruire un soggetto politico ulivista, in accordo con Sinistra Italiana e, magari, anche con forze movimentiste come Possibile di Civati e la pattuglia di parlamentari di sinistra fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle.

Affinché questo progetto non risulti velleitario e non si perda nella fiumana delle belle promesse, però, è necessaria una presa di coscienza collettiva, caratterizzata innanzitutto da una sana autocritica (che non vuol dire autoflagellazione ma capacità di analisi e saggezza nel riconoscere e nel fare ammenda per gli errori commessi in passato) e poi dallo slancio di cui c’è bisogno quando ci si vuole imbarcare in un’impresa rischiosa ma indispensabile come quella di ricostruire una proposta politica radicalmente alternativa e incompatibile con il Partito della Nazione.

Passate le Amministrative, è noto “urbi et orbi” che Renzi, per provare a vincere il referendum, non si appoggerà al PD, del quale non gliene è mai importato granché e verso il quale ha, anzi, sempre nutrito una discreta avversione, bensì al Partito della Leopolda, ai suoi circoli di fedelissimi, alle amazzoni pronte a immolarsi in difesa del sacro verbo e alle camicie bianche della rivoluzione che dovranno andare casa per casa a spiegare che la nostra Costituzione, della quale si attendeva la riforma da settant’anni, cioè da prima che fosse redatta e approvata, è stata modificata in senso migliorativo e senza snaturarne lo spirito e i valori, consentendole, al contrario, di porsi al passo coi tempi e con i ritmi imposti dalla modernità.

Non sappiamo se i nostri eroi, chiamati a un simile, titanico sforzo, riusciranno a portare a termine l’impresa, possibilmente restando seri e convincendosi che le cose stiano davvero così; ciò che è sicuro, all’opposto, è che l’unica possibilità che ha la minoranza dem di rilanciare il progetto ulivista al quale sembra tenere sul serio è schierarsi, anima e corpo, a favore del NO. Il resto vien da sé, senza bisogno di forzature: da una parte l’Ulivo, dall’altra Forza Italicum; da una parte il prodismo, dall’altra il berlusconismo; da una parte chi vorrebbe un’Italia più civile e caratterizzata da un dibattito politico aperto e basato su una dialettica fra schieramenti contrapposti, dall’altra chi auspica il ritorno del centrismo che fu, col suo blocco di potere alimentato dal clientelismo e da mance elettorali elargite al momento opportuno e due opposizioni anti-sistema, quindi incapaci di costituire un’alternativa credibile al moloch dominante.

Un nuovo Ulivo, cari Bersani e Speranza, non può nascere e non sarebbe minimamente affidabile se fosse composto dalla stessa classe dirigente che ha servito tutti i padroni, votato tutte le leggi di Renzi, fatto parte del suo governo, umiliato chiunque osasse dissentire e tradito il mandato elettorale di milioni di elettori. Non può nascere se non viene percepito come qualcosa di diverso e altro rispetto alla triste stagione che stiamo attraversando. Non può nascere se non riparte dal progetto originario di questa legislatura di un governo del cambiamento, in grado di imprimere una svolta tangibile al Paese. Non può nascere se non offre un’ideologia europea e la prospettiva di un governo fermo nei princìpi del rigore ma, al tempo stesso, coraggioso nel dire basta ad un’austerità pericolosa e senza respiro che sta conducendo nel baratro l’impianto della democrazia occidentale, America compresa. E non nascerà, infine, se non avrà la forza e l’intelligenza di sfidare il mondo grillino o, quanto meno, quella parte del mondo grillino che un tempo si fidava della sinistra ma si e sentito escluso, inascoltato e preso in giro in troppe occasioni per riporre ancora in essa le proprie aspettative. 

Se Speranza o chi per lui, invece, pensa davvero, come circola malignamente in alcuni ambienti renziani e turchi, di potersi accontentare di un mediocre 15 per cento al congresso per contrattare una percentuale corrispondente di capilista, lasci perdere: non solo il congresso che auspica non si celebrerà mai ma, se anche dovesse celebrarsi, in caso di affermazione renziana nel referendum, si trasformerebbe in una passerella per la Boschi e per i volti arrembanti del Partito della Nazione. E proprio Speranza, con un sussulto di dignità di cui gli va dato atto, ci ha insegnato che gli ideali, l’entusiasmo e le ragioni che ci hanno indotto ad amare e a dedicarci attivamente alla politica valgono più di una poltrona, la quale equivarrebbe all’offerta di un pane sporco, concesso per salvare l’apparenza da un potere a quel punto irrefrenabile.

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