Lettera all’Europa sul nostro futuro

ROMA – Scrivo questa lettera avendo ancora negli occhi l’orrore per quanto è accaduto domenica nel campo profughi di Idomeni, al confine fra la Grecia e la Macedonia.

Scrivo questa lettera provando dentro di me un forte senso di rabbia e di incredulità, di dolore e di sgomento, al cospetto di un’Europa nella quale fatico sempre di più a riconoscermi e verso la quale, talvolta, provo un sentimento di vergogna. Scrivo questa lettera perché mi rendo conto che ciò che sta avvenendo a Idomeni, ciò che sta avvenendo in Austria, con la richiesta di smantellare Schengen, ciò che sta avvenendo nei paesi del nord, dove sono tornati i controlli alle frontiere, ciò che è avvenuto nel referendum olandese di mercoledì scorso sull’accordo di associazione fra l’Unione Europea e l’Ucraina e ciò che potrebbe avvenire a giugno in caso di Brexit (e con Cameron indebolito dalle rivelazioni emerse dai Panama Papers non è detto che questa prospettiva sia così remota), ciò che sta avvenendo ovunque altro non è che lo specchio dell’orrore quotidiano nel quale siamo immersi.

Un mese fa, in occasione del terzo anniversario del pontificato di papa Francesco, Letta scrisse un articolo per “La Stampa” nel quale scelse tre gesti emblematici dell’azione pastorale di Bergoglio: l’appello all’Europa, al Parlamento di Strasburgo, affinché riscopra i suoi valori costitutivi; il viaggio a Lampedusa del luglio 2013, quasi una profezia se consideriamo ciò che è avvenuto nell’ottobre di quell’anno e negli anni successivi, e infine il processo di riappacificazione portato avanti come mediatore fra Stati Uniti e Cuba e culminato, di recente, con la visita di Obama sull’isola. Mi permetto di aggiungere un quarto aspetto: la costante attenzione di Francesco alla necessità di costruire un mondo diverso, rispettoso dell’ambiente e della dignità delle persone e basato su un modello economico, di crescita e di sviluppo radicalmente alternativo a quello che ha dominato l’ultimo trentennio.

Ebbene, questi quattro valori (solidarietà, Europa, incontro e sostenibilità economica e ambientale) sono gli stessi che potrebbero restituire centralità al nostro continente e che invece, a causa della miopia di molti governi, di una crisi economica che ha lacerato nel profondo le coscienze e la sensibilità collettiva e di un fenomeno migratorio che non sembriamo in grado di governare e di valorizzare adeguatamente, stanno venendo meno, ricacciando tutti noi nel limbo di piccole patrie litigiose e incapaci di entrare in sintonia con le caratteristiche del mondo globale nel quale viviamo.

Si dice spesso che in Europa ci sono Stati troppo piccoli e Stati che non hanno ancora capito di esserlo: può sembrare un’affermazione retorica ma costituisce, al contrario, una drammatica verità. Di fronte alla minaccia del terrorismo, di fronte a un Medio Oriente e a un Nord Africa in fiamme, di fronte ad un’economia mondiale che rallenta in maniera preoccupante, di fronte a un pianeta che già in estate ha esaurito le risorse e sembra non bastare più per i suoi sette miliardi di abitanti, di fronte al lancio, alle Nazioni Unite, dei diciassette obiettivi per uno sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030, pena il collasso della Terra, di fronte a sfide di questa portata, solo un’Europa unita, coesa, dotata di un’opinione pubblica attiva e fiduciosa può indirizzare lungo i giusti binari una battaglia per la democrazia del futuro che non sta scritto da nessuna parte che saremo in grado di vincere.

Cara Europa, così proprio non va. Non va perché la nostra generazione, cresciuta negli anni Novanta coltivando la realistica illusione di un mondo senza barriere, si trova oggi a dover fare i conti con l’intollerabile contraddizione di un continente che, mentre predica la massima libertà di pensiero e di movimento per i propri cittadini, erige fili spinati e chiude le frontiere in faccia a famiglie in fuga dalla miseria e dalla guerra. Non va perché da bambini avevamo ammirato le gesta dei campioni della Francia multietnica che vinse il Mondiale del ’98 e oggi ci troviamo ad osservare immagini strazianti come quelle della redazione insanguinata di “Charlie Hebdo” o come il volto di Valeria Solesin, vittima della ferocia jihadista al Bataclan. Non va perché siamo stati abituati a considerare Bruxelles la nostra seconda capitale e, invece, l’abbiamo vista sfregiata da due attentati gravissimi che sono costati la vita a decine di persone. Non va, in definitiva, perché di fatto è fallito un modello di integrazione e non siamo stati all’altezza di produrne uno alternativo e rapidamente applicabile.

A tal proposito, è bene ricordare che negli ultimi dieci anni sono andati in frantumi sia i sogni di gloria francesi, con una “grandeur” ostentata a parole ma fragile all’atto pratico, con veri e propri ghetti, le banlieue, che già nel 2005, quando ancora non esisteva il Daesh, insorsero mettendo in ginocchio l’intero Paese, sia la politica del quieto vivere adottata dagli inglesi, basata sull’assunto in base al quale le comunità islamiche non danno alcun fastidio purché restino confinate nei propri quartieri.

Tanto i “valeurs de la République” quanto il “modello Londonistan” già nel biennio 2005-2006 mostravano vistose falle. Oggi, con il Belgio definito da alcuni osservatori una “nazione fallita”, la Francia scossa dall’avanza impetuosa del Front National e il Regno unito attraversato dalle pulsioni secessioniste dell’UKIP e di buona parte dei tories, sono le fondamenta stesse del Vecchio Continente a venir meno ed è il nostro domani ad essere seriamente in discussione.

Se a ciò aggiungiamo la battaglia, anch’essa demagogica, contro l’euro sentina di tutti i mali, comprendiamo per quale motivo deve partire da noi, generazione Erasmus, generazione Bataclan, generazione che non ha quasi conosciuto le valute nazionali, la costruzione innanzitutto di un pensiero europeo e poi di un’unione politica compiuta, stabile e in grado di recitare un ruolo da protagonista sul palcoscenico del Ventunesimo secolo.

Se vogliamo essere artefici del nostro destino, se davvero vogliamo che la voce di un europeismo maturo e riformista non si spenga, dobbiamo essere noi i primi ad innalzare questa voce, evitando che venga soverchiata dalle grida becere di quanti vogliono mandare all’aria l’intero progetto. 

Solo sentendoci prima di tutto cittadini europei, potremo considerare fratelli coloro che sono ammassati come oggetti nel campo profughi di Idomeni. E visto che papa Francesco, venerdì prossimo, sarà in visita a Lesbo, insieme all’arcivescovo di Atene, Ieronimos II, e al patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, se davvero vogliamo trasformare in una proposta politica concreta lo straordinario messaggio del pontefice non possiamo che partire da noi stessi, cominciando a sentirci parte di una fratellanza universale che abbia negli ultimi e nei disperati i propri simboli di riscatto.

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