Aspettando la Legge di Bilancio

È inutile scaldarsi più di tanto sulle cifre della Legge di Bilancio presentata sabato scorso da Renzi e Padoan, per il semplice motivo che per il momento siamo, come di consueto, alle slide.

Molto fumo, molte promesse, qualche specchietto per le allodole, mance distribuite a piene mani a dritta e a manca per non scontentare nessuno e cercare di raccogliere più consensi possibile in vista del dies irae referendario, l’amara sensazione che tutti gli annunci di questi giorni verranno prontamente rimangiati dopo il 4 dicembre e, ancor più, l’anno prossimo e la certezza che, in realtà, al netto di tutte le critiche, i pregiudizi e le considerazioni delle opposte tifoserie, siamo fondamentalmente al cospetto di una finanziaria all’acqua di rose.

Non entreremo nel dettaglio: innanzitutto, per evitare di appesantire eccessivamente l’analisi, trattandosi di un profluvio di numeri che finirebbe con lo stancare, e forse anche con l’infastidire, il lettore; in secondo luogo, perché siamo abituati a commentare ciò che esiste e non le esibizioni propagandistiche di un uomo indubbiamente abile nel fare campagna elettorale ma assai meno esperto e capace nel governare e nel tenere unito un Paese più che mai bisognoso, invece, di coesione e di fiducia.

Questa manovra, composta per lo più da stanziamenti volti ad evitare che scattino le clausole di salvaguardia, in piccola parte da concessioni alle imprese e in misura veramente esigua da provvedimenti di respiro sociale, sconta il limite più evidente del renzismo: la mancanza di una visione e di un disegno politico complessivo e dai contorni globali.

A Renzi servono voti a breve termine: per il referendum e, temiamo noi, per un lavacro elettorale che potrebbe avvenire già in primavera, specie se le tensioni all’interno del PD dovessero diventare insostenibili e il Presidente del Consiglio iniziasse ad avere il sentore che gli scricchiolii quotidiani presenti in una maggioranza eterogenea e tenuta insieme più dallo spirito di conservazione delle poltrone che da un effettivo anelito riformista potrebbero finire col rosolarlo a fuoco lento, mettendo in discussione la sua immagine di risoluto uomo del fare e di dinamico tuttologo dalle infinite risorse fisiche e mentali.

E per ottenere pochi voti, maledetti e subito, il nostro eroe e il suo ministro dell’Economia hanno presentato una Legge di Bilancio da circa 27 miliardi, la quale, sostanzialmente, non rende giustizia a nessuno ma riesce nell’intento di lenire, sia pur in misura minima, qualche sofferenza e di dare quanto meno l’impressione di voler sanare alcune palesi ingiustizie del passato come, per esempio, la famigerata riforma Fornero. 

Poco, davvero troppo poco per un Paese il cui tasso di disoccupazione è allarmante, la cui percentuale di giovani disoccupati costituisce una vergogna e un allarme sociale da non sottovalutare, la cui desertificazione industriale ha raggiunto vette mostruose, la cui crescita è anemica e le cui classi dirigenti, quasi sempre intente, da trent’anni a questa parte, a coltivare i propri piccoli interessi di bottega e a soddisfare le proprie brame di potere, non sono state in grado di elaborare un disegno complessivo di riforme economiche, sociali ed industriali in grado di ricondurci nel novero delle potenze mondiali. 

Il Jobs Act, gli sgravi contributivi a pioggia, i bonus, le stime perennemente al rialzo e perennemente smentite tanto dagli uffici di Bruxelles quanto da quel detrattore severissimo chiamato realtà altro non sono che la cifra morale, oltre che politica, di un modo di intendere l’arte del governare che da Craxi in poi, e con l’eccezione di quei pochi sprazzi di Ulivo di cui abbiamo beneficiato nell’ultimo trentennio, hanno caratterizzato i vari esecutivi che si sono succeduti.

Tommaso Padoa-Schioppa la definiva la “veduta corta” e mi sembra una definizione impeccabile, specie se si pensa ai palliativi che Renzi sta spacciando da anni per riforme epocali, raggiungendo l’apice in questa manovrina elettorale, nell’ambito della quale la riproposizione di Equitalia sotto un altro nome costituisce l’emblema di quest’idea furbesca per la quale l’annuncio e l’immagine vengono sempre prima della sostanza. 

Battere fintamente i pugni in Europa per accattivarsi le simpatie di un certo elettorato “di pancia” berlu-leghista, fingere di abolire Equitalia per compiacere i grillini, strizzare l’occhio ai sindacati e alla propria sinistra per cercare di placarne i malumori, legati alla sciatteria con la quale è stato redatto il testo di riforma costituzionale e ai rischi costituiti dal combinato disposto fra questo e una legge elettorale sulla quale è opportuno sorvolare, infine rinominare i condoni di berlusconiana memoria chiamandoli “voluntary disclosure”: questo è stato l’operato del Presidente del Consiglio nell’ultimo mese, da quando a Bratislava fece fare una figuraccia all’Italia al cospetto della Merkel e di Hollande, per giunta nel giorno della scomparsa del presidente Ciampi, il tutto nell’ottica di provare a conquistare alla causa del sì scettici ed indecisi.

L’aumento del deficit e le continue richieste di flessibilità, poi, possono volgere a compassione al massimo il povero Moscovici, esponente di un socialismo francese ormai ridotto al lumicino e prigioniero di un’inadeguatezza mai vista che lo costringerà a scegliere, in primavera, il meno peggio fra un esponente della fu destra gaullista e la signora Le Pen; tecnici ed esperti della Commissione europea, al contrario, considerano questo atteggiamento insostenibile e non hanno tutti i torti a pensarla così, essendo l’Italia un paese che ha già ampiamente beneficiato della benevolenza continentale, solo che l’ha sprecata in provvedimenti spot, utili, a loro volta, solamente a mietere consenso e a cercare, invano, di arginare l’avanzata del M5S.

Se Renzi fosse davvero uno statista, batterebbe seriamente i pugni sul tavolo dei commissari europei e proporrebbe loro il superamento degli anacronistici accordi di Maastricht e un ampio sforamento del tetto del 3 per cento finalizzato a: rilanciare l’industria, aumentare il numero di diplomati e laureati, costruire un sistema di alternanza scuola/lavoro che si concluda con una piena assunzione, tutelata e ben retribuita, intervenire per mettere in sicurezza un territorio meraviglioso e, al tempo stesso, fragilissimo e restituire una boccata d’ossigeno a statali, pensionati e a tutte le categorie sociali che, da quando è scoppiata la crisi, non hanno fatto altro che scivolare verso il baratro. Infine, proporrebbe un graduale piano di riduzione del debito pubblico e un altrettanto graduale piano di rientro entro parametri economici degni di un paese del G8. A pensarci bene, alcune di queste proposte furono attuate dai governi di centrosinistra del quinquennio ’96-2001, il che ci permise di entrare nella moneta unica e di innescare un circolo virtuoso che ha parzialmente resistito persino alla finanza creativa di Tremonti e alla pessima gestione dei conti pubblici compiuta dai governi Berlusconi nel quinquennio successivo.

Senza contare che il secondo governo Prodi, nel gennaio del 2008, chiuse i battenti con un avanzo primario del 3 per cento, lo spread a quota 37 punti e un debito pubblico vicino a quota 100, mentre oggi è oltre il 130 per cento. 

Se Renzi, oltre ad essere uno statista, avesse qualcosa a che spartire con la nobile storia dell’Ulivo, se non gli interessasse unicamente il consenso nel breve periodo e se avesse a cuore la coesione nazionale, indispensabile, di questi tempi, per resistere ai marosi di una globalizzazione iniqua e foriera di innumerevoli ingiustizie, avrebbe presentato una Legge di Bilancio corposa e credibile. Essendo impegnato soltanto nella sua personale crociata referendaria, per ora, dobbiamo accontentarci di una trentina di slide che promettono il Paradiso terrestre ma danno tanto l’impressione di non condurre da nessuna parte e, meno che mai, di essere in grado di stimolare la crescita e di far ripartire il Paese. 

Aspettando la Legge di Bilancio: con ansia e con vivo interesse.

 

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