Ci voleva il genio eclettico di Andrea Scanzi per riportare in vita l’arte fulminea di Ivan Graziani: il suo rock leggero ma, a modo suo, impegnato, la sua dolcezza, la sua straordinaria intelligenza artistica, il suo stile inconfondibile e la profondità dei suoi argomenti, purtroppo assai poco frequentati dalla cultura musicale contemporanea e dai suoi interpreti, per lo più afasici su tanti temi cruciali che, invece, innervavano le canzoni di frontiera, sperimentali e fresche, di questo cantautore scomparso vent’anni fa, a soli cinquantuno anni, lasciando un vuoto difficilmente colmabile in un panorama canoro divenuto troppo presto commerciale e privo di figure in grado di suscitare emozioni autentiche.
Di Claudio Villa, invece, si sa quasi tutto: era soprannominato il “reuccio”, come a voler sottolineare il suo essere una sorta di semi-Dio, una figura cardine della musica italiana, la cui morte, comunicata da Pippo Baudo nel corso di un’edizione del Festival di Sanremo, giunse in un momento incredibilmente simbolico e, proprio per questo, tuttora celebrato a trent’anni di distanza.
Era il 7 febbraio 1987, all’Ariston stava andando in scena l’ultima serata del Festival e quando Baudo diede la notizia della scomparsa di Claudio Villa, recatosi a Padova per un’operazione al cuore, la commozione fu tangibile, essendo venuta meno una voce che non era solo il simbolo della tradizione e della grandezza della nostra storia musicale ma era anche, se non soprattutto, l’emblema di una certa stagione del nostro Paese, quella a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, quasi unanimemente considerata una delle più importanti per il nostro panorama artistico ed intellettuale, segnata dalla fioritura di attori e registi straordinari, da una RAI che incarnava al meglio il concetto di servizio pubblico e, dal punto di vista musicale, da una meraviglia espressiva in grado di rendere al meglio sia nelle sue forme più leggere che nelle sue forme più impegnate.
Graziani e Villa: due storie completamente diverse, diremmo quasi antitetiche; due storie difficili da raccontare insieme, difficili da comprendere per chi non ha mai ascoltato le loro voci, difficili persino da leggere nella stessa ottica, trattandosi di due vicende umane lontane che più lontane non si sarebbe potuto; tuttavia, se abbiamo scelto di narrarle insieme, non è solo perché sono accomunate da due anniversari tanto tragici quanto importanti ma anche perché in questa loro diversità risiede più che mai la grandezza di una storia, quella della canzone italiana, che ha saputo tenere uniti finanche gli opposti con straordinaria saggezza.
Due voci, due mondi, due avventure umane e professionali, un unico ricordo, in nome di un’arte e di una passione capace di contagiare tutti, di prendere per mano tutti i ceti sociali e di interpretare i molteplici gusti della nostra comunità nazionale, a dimostrazione di quante virtù possa caratterizzare questa rappresentazione nazional-popolare, da sempre in grado di esprimere al meglio le pulsioni più intime, controverse e quasi impossibili da far emergere altrimenti della nostra convulsa e variegata collettività.