Panetta a Pechino e contenzioso Cina-Giappone sulle isole Diaoyu

La cronologia di una vicenda che scotta

ROMA – 19 set.- “ “Il nostro riequilibrio verso il Pacifico non è un tentativo di contenere la Cina. E’ un tentativo di interagire con la Cina ed espandere il suo ruolo nel Pacifico”. Parola di Leon Panetta.
Il Segretrio alla Difesa Usa, durante un incontro con il vicepresidente Xi Jinping tenutosi mercoledì nella Grande Sala del Popolo a Pechino, ha colto l’occasione per tranquillizzare il Dragone circa la rinnovata assertività di Washington in Estremo Oriente. L’intento non è, dunque, quello di contenere il gigante asiatico quanto, piuttosto, di creare un nuovo modello nelle relazioni tra le due potenze, obiettivo che passa inevitabilmente attraverso rinnovati e più stretti legami militari, ha spiegato il capo del Pentagono.

D’altra parte, la visita di Panetta non è giunta casualmente nei giorni caldi in cui la contesa per la sovranità delle isole Diaoyu (Senkaku in giapponese) rischia di sfociare in una grave crisi diplomatica tra Tokyo e Pechino. La situazione nel Mar Cinese Orientale è degenerata il 10 settembre scorso in seguito all’annuncio dell’acquisto di alcuni degli atolli da parte del governo nipponico. In seguito, il 13 settembre il governo cinese ha spedito nelle acque agitate 6 navi vedette.
Le isole, appartenuti ad una famiglia giapponese che ne detiene i diritti di sfruttamento, sono al centro di un annosa controversia tra Cina, Giappone e Taiwan, desiderose di mettere le mani sulle ricche risorse energetiche nascoste nei fondali circostanti.

E sebbene gli Stati Uniti si dichiarino neutrali nella disputa, l’affermazione rilasciata lunedì dal Segretario alla Difesa americano in visita a Tokyo, secondo la quale il trattato di reciproca difesa tra Stati Uniti e Giappone copre anche le Diaoyu/Senkaku, è suonata alle orecchie cinesi come un chiaro affronto. Così come l’aumento di missili Usa in Asia, giustificato da Washington come una misura preventiva volta a scongiurare azioni ostili da parte della Corea del Nord. “Il nostro ruolo è assicurarci che nessuna disputa o incomprensione possa portare a tensioni o a un conflitto” nella regione” ha ribadito Panetta.

Inutili i tentativi degli Stati Uniti di tenersi fuori dalle schermaglie tra le due potenze asiatiche. Nel pomeriggio di martedì l’auto dell’ambasciatore americano Gary Locke è stata assaltata da un gruppo di cinquanta manifestanti anti-giapponesi che stavano cercando di entrare nella sede diplomatica Usa. Locke è rimasto “illeso” e la macchina “lievemente danneggiata”, ha riferito un funzionario dell’ambasciata ad AgiChina24.

Intanto, proprio nella giornata di ieri, Xi Jinping, probabile sucessore di Hu Jintao al prossimo Congresso, ha definito l’acquisto giapponese delle isole contese “una farsa” e ha intimato a Tokyo di “frenare il proprio comportamento”. D’altra parte, l’atteggiamento del governo cinese, in un primo momento poco risoluto nel reprimere le manifestazioni nazionaliste dilagate ad inizio settimana in oltre 100 città della Cina, sembra aver scelto l’arma della cautela. Pechino “ha capito molto bene che le rivolte nazionaliste possono rivelarsi un’arma a doppio taglio” ha spiegato Joseph Cheng, esperto di Cina presso la City University of Hong Kong Nella giornata di mercoledì sono state riaperte le strade in prossimità dell’ambasciata giapponese di Pechino, mentre in tutto il paese non è stata segnalata nessuna protesta di portata significativa; solo pochi manifestanti nei dintorni del consolato nipponico a Shanghai, come riporta France Press.

In questo momento, alla vigilia del rimpasto al vertice, la preoccupazione maggiore delle autorità cinesi consiste nell’assicurare la stabilità sociale. Secondo Linda Jakobson, del Lowy Institute for International Policy di Sidney, contrasti tra i piani alti del Pcc complicano il lavoro alla leadership uscente. La fazione che spinge verso una maggior aggressività in politica estera potrebbe cercare di strumentalizzare le manifestazioni anti-nipponiche contro i propri avversari. Da qui la difficoltà del governo centrale nel reprimere l’ondata di proteste, in parte animata dall’insoddisfazione verso un’atteggiamento troppo debole dimostrato da Pechino nei rapporti con i paesi d’oltremare. Un sentimento che i manifestanti hanno espresso rispolverando le immagini di Mao Zedong, leader di polso nelle relazioni con le potenze straniere.

“In questo momento il governo cinese può sperare al massimo di riuscire a placare le ire dell’opinione pubblica e, in seconda battuta, di stabilire una sorta di stallo”, ha affermato Barry Sautman, analista presso la Hong Kong University of Science and Technology.

18 set.- Sale la tensione tra Cina e Giappone per la sovranità territoriale sulle isole Diaoyu/Senkaku. Nella giornata di martedì grandi società nipponiche hanno chiuso centinaia di negozi e impianti, mentre l’ambasciata giapponese a Pechino ha sospeso i suoi servizi in seguito al degenerare delle proteste cinesi  contro Tokyo. Lo sbarco di due nazionalisti giapponesi su uno degli atolli contesi -come riferito dalla guardia costiera- rischia di alzare la temperatura nell’area già pattugliata da navi di entrambi i paesi. Nella giornata di ieri una flottiglia di 1.000 pescherecci cinesi ha preso il largo verso le acque agitate; non è chiaro quante imbarcazioni abbiano realmente raggiunto le isole, riporta la Reuters, ma crescono di ora in ora i timori per uno scontro diretto tra le due potenze asiatiche.

Nei giorni scorsi migliaia di manifestanti sono scesi in strada per protestare contro l’annuncio rilasciato dal governo di Tokyo circa l’acquisto di tre delle cinque isole dell’arcipelago da una famiglia giapponese che ne detiene il diritto di sfruttamento. Lo scorso 10 settembre, il segretario di gabinetto Osama Fujimura, ha dato la conferma: “Si tratta solo di un cambio di proprietà della terra, che appartiene al Giappone, da un privato allo Stato, e ciò non dovrebbe causare problemi con altri Paesi. Non vogliamo che la questione delle Senkaku interferisca coi rapporti sino-giapponesi”.

Orgoglio nazionalista e sentimenti anti-giapponesi dilagano in tutta la Cina, prendendo di mira attività commerciali e fabbriche del Sol Levante. Circai un centinaio le città del Paese di Mezzo in cui la rabbia contro Tokyo ha raggiunto il livello di guardia, con lancio di oggetti e atti vandalici ai danni di veicoli di marca giapponese. Aziende produttrici di auto, come la Toyoto Motor Co. e la Honda Motor Co. hanno chiuso i battenti, sospendendo temporaneamente le operazioni. Stessa sorte per Mazda, Mitsubishi Motors e Panasonic, con esiti allarmanti, secondo l’agenzia di rating Fitch, per la quale la situazione potrebbe compromettere la capacità di credito di diverse case automobilistiche e giganti dell’hi-tech. La Hitachi ha invitato 25 dipendenti tornare in patria a causa dei disordini, mentre Uniqlo, leader dell’abbigliamento che possiede 145 punti vendita nel Paese di Mezzo, ha sbarrato le porte di circa un quarto dei suoi negozi.

La reazione delle forze dell’ordine cinesi è stata da più parti considerata troppo soft tanto che, secondo quanto dichiarato alla Reuters dall’artista-dissidente Ai Weiwei, le proteste avrebbero ricevuto l’approvazione della polizia. Sulla rete Internet dilagano illazioni circa una possibile complicità delle autorità di Pechino, intente a fomentare l’orgoglio nazionalista con lo scopo di dirottare l’attenzione pubblica dagli ultimi scandali politici, giunti a ridosso del XVII Congresso del Partito, che il mese prossimo sancirà il ricambio al vertice.

Proprio martedì ricorre l’anniversario dell’incidente di Mukden, che nel 1931 diede il via all’occupazione  della Manciuria da parte del Giappone. Ritratti di Mao Zedong e striscioni contro Tokyo riempiono le piazze di tutta la Cina, mentre ancora oggi la polizia antisommossa ha circondato la sede diplomatica giapponese a Pechino per difenderla dalle ire dei manifestanti. “Il Giappone è un cane degli americani” recita uno degli slogan apparsi nella città meridionale di Canton.

Le proteste in chiave anti-giapponese hanno raggiunto il picco più alto proprio in concomitanza con la visita in Asia del Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta. Il capo del Pentagono ha affermato la neutralità di Washington nella disputa territoriale tra i due cugini asiatici e ha invitato alla “calma e alla moderazione” per evitare un’ulteriore escalation. Mercoledì il Segretario della Difesa Usa incontrerà il vicepresidente e leader in pectore Xi Jinping, riapparso sabato dopo una misteriosa sparizione dalla scena pubblica durata due settimane.

Ma nonostante la diplomazia cinese, per bocca del ministro della Difesa Liang Guanglie, abbia cercato di rilassare i toni, la stampa d’oltre Muraglia sembra essere meno accondiscendente. Mentre lunedì un editoriale del Global Times, spin-off in lingua inglese del People’s Daily, ha condannato ogni forma di manifestazione violenta, le testate in caratteri sciorinano una retorica dai toni belligeranti. Per il Quotidiano del popolo “Tokyo non si è sinceramente pentito del suo passato di guerre, invasioni e colonialismo” e la Cina è pronta a combattere, sia che si tratti di una guerra lampo che di un conflitto di lunga durata.

Quella per le Diaoyu/Senkaku, Eldorado di risorse naturali ed energetiche situato nel Mar Cinese Orientale, è una contesa che si protrae da due anni. Nel 2010 la collisione tra un peschereccio cinese e una nave della guardia costiera giapponese aveva portato le relazioni tra i due paesi al minimo storico. Con un comunicato ufficiale dal titolo “Considerazioni fondamentali riguardanti la sovranità territoriale sulle isole Senkaku”, lo scorso agosto il Ministero degli Esteri giapponese ha ribadito l’annessione degli atolli al territorio nipponico dal 14 gennaio del 1895. Una serie di indagini in loco avrebbe confermato che “non solo l’arcipelago era disabitato, ma non esistevano nemmeno segni della dominazione cinese”. Formalmente il Giappone si appropriò di una terra nullius, incorporandola all’amministrazione di Okinawa senza che il Dragone opponesse resistenza né presentasse alcuna rivendicazione ufficiale. Ma se Tokyo avanza i suoi diritti sulle isole in virtù del Trattato di Shimonoseki stilato al termine della prima guerra sino-giapponese, per Pechino questo è nullo come tutti i trattati ineguali firmati nel diciannovesimo secolo sotto l’incalzare delle potenze straniere.

A complicare ulteriormente la disputa si inserisco le rivendicazioni della Repubblica di Cina, della quale il governo cinese non riconosce l’indipendenza e considera parte integrante del territorio nazionale. Nel 1944, infatti, un tribunale giapponese riconobbe le Senkaku come appartenenti a Taiwan, al tempo ancora sotto l’egemonia nipponica. Con il Trattato di San Francisco del 1951, con il quale cominciò il protettorato degli Stati Uniti sul Giappone,- ma che d’altra parte non venne firmato né dalla Repubblica popolare né da Taiwan- Washington continuò ad occupare diverse isole tra cui proprio l’arcipelago in questione. Sino al 1972, quando Okinawa e i territori circostanti passarono nuovamente al Sol Levante.

E ancora: alcuni documenti risalenti alla dinastia Qing (1944-1911) attesterebbero la sovranità cinese sulle isole a prima del 1895, specificando che le Diaoyu/Senkaku sorgono “entro il confine che separa le terre cinesi da quelle straniere”. Da parte sua la Repubblica di Cina chiama a testimone alcuni dizionari geografici nei quali veniva espressamente indicato che “le Diaoyu ospitano dieci o più navi di grandi dimensioni” sotto la giurisdizione di Kavalan, Taiwan.

Nell’intricata rete di rivendicazioni territoriali, nella giornata di ieri, il Segretario alla Difesa americano, in visita a Tokyo, almeno su un punto sembra aver fatto chiarezza: qualora la situazione dovesse degenerare in un conflitto armato, il trattato di reciproca difesa tra Stati Uniti e Giappone copre anche le Diaoyu/Senkaku.

 

 

 

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