“Le mille e una rotta”: l’avanzata del Dragone tra nord e sud

PECHINO (corrispondente) – Con il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci torna in auge la Northern Sea Route; e la Cina ci guadagna.

A nord

Nonostante gli avvertimenti del rapporto nazionale sui cambiamenti climatici secondo il quale l’inquinamento galoppante rischierebbe di fermare la lunga marcia verso la crescita economica della seconda potenza mondiale, Pechino continua a temporeggiare, gettando fumo e nebbia sul reale stato di salute dell’ “aria con caratteristiche cinesi”. “Bisognerà attendere il 2030 perchè le emissioni di anidride carbonica comincino a diminuire, per arrivare a regime soltanto intorno alla metà del secolo”, recita il rapporto.
Dal banco degli imputati il Dragone si proclama impegnato nel perseguimento di uno sviluppo sostenibile e deciso a ridurre le emissioni ma…

Secondo uno studio, lo scioglimento dei ghiacciai dell’Artico dovuto al global warming aprirebbe un nuovo passaggio a nord-est; un passaggio che al momento viene creato artificialmente per mezzo di costose navi rompighiaccio: le nuove rotte attraverso lo stretto di Bering, che collega Europa e Oceano Pacifico, farebbero risparmiare alla Cina dai 60 ai 120 miliardi di dollari, dimezzando distanza (circa 10.000 chilometri in meno) e tempi di navigazione, mentre a nord-ovest, passando per il Canada Artico, il percorso verso l’Atlantico verrebbe accorciato di 7.000 chilometri.

E se le previsioni degli esperti si riveleranno esatte, entro il 2030, nel periodo estivo il mare di ghiaccio si scioglierà creando un canale concorrenziale rispetto a quello di Suez, troppo battuto- le rotte che solcano l’Oceano Indiano mettono Pechino in diretta competizione con Delhi- e altamente rischioso per via della pirateria che infesta il golfo di Aden.

Non a caso, dunque, Cina e India hanno richiesto di divenire osservatori permanenti del Consiglio Artico, forum che unisce gli sforzi di Russia, Stati Uniti, Canada, Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda e Finlandia, per monitorare una delle aree dal punto di vista strategico ed energetico più importanti del globo. In questa fitta rete di relazioni, Copenaghen potrebbe rivelarsi un importante avamposto per gli interessi del Dragone nell’Artico. La capitale danese, infatti, esercita forte influenza sulla Groelandia, terra ricca di quei preziosissimi minerali denominati “terre rare,” fondamentali per il settore dell’high-tech e dei quali la Cina produce il 95% delle forniture mondiali.

Sebbene il Consiglio sia all’opera dal 1996,  i contrasti tra Washington e Mosca relativi al “passaggio a nord-ovest”, la rotta commerciale che va dall’Oceano Atlantico al Pacifico attraversando il Canada, hanno spesso ostacolato il dialogo ad otto, tenendo in vita una controversia che lascia i suoi strascichi dai tempi della Guerra Fredda.

Nell’estate del 2010, la Russia ha voluto rimarcare il terreno inaugurando una rotta per il trasporto di gas e petrolio destinata ai Paesi Asiatici, passante proprio attraverso l’Artico. Una mossa che, oltre ad aver infastidito Pechino, è piaciuta molto poco anche al Canada che considera il passaggio a “nord-ovest” parte delle proprie acque territoriali.

…E a sud

Una linea immaginaria che collega Mar Cinese Meridionale al Golfo del Bengala per poi proseguire fino all’Oceano Indiano e quindi al Mar Rosso, sino allo stretto di Suez. Silenziosamente il Dragone tesse il “suo filo di perle”, il fiore all’occhiello di una strategia geopolitica che a poco a poco ne sta determinando un’inarrestabile avanzata. I porti tailandesi, quello birmano di Sitwe, le Coco Island (le Isole Andamane birmane), Chittagong nel Bangladesh e Gwadar nel Baluchistan pakistano sono alcune delle gemme più splendenti, conquistate da Pechino nell’ultimo ventennio attraverso la consolidazione di una partnership strategica basata prevalentemente sulla cooperazione nel settore delle infrastrutture e del commercio.

Insomma una politica oceanica che attraverso finanziamenti e partecipazioni alla costruzione di grandi opere ha permesso alla Cina di legarsi a doppio filo alle principali aree portuali e costiere del Sud-est asiatico, trasformandole gradualmente da importanti basi commerciali a strategici avamposti militari.

Ma il “viaggio verso Occidente” del Dragone ha un obiettivo ben preciso. Si stima infatti che i 2/3 degli approvvigionamenti energetici dei quali beneficiano i Paesi asiatici provengano dal Medio Oriente tramite rotte marittime che attraversano l’Oceano Indiano e lo stretto di Malacca. Il filo di perle si innesta così in una politica di contenimento che da una parte ha lo scopo di accerchiare e isolare l’India, allontanandola dai suoi vicini naturali, dall’altra punta ad assicurare a Pechino i diritti di navigazione e la protezione delle petroliere che provengono dai Paesi Arabi.

Il lavoro di trama e ordito cominciò negli anni 90′ quando la fame per le risorse globali iniziò a tormentare il Regno di Mezzo. Primi “cacciatori di perle” furono i miliardari cinesi d’oltremare che a quel tempo avevano di fatto il monopolio delle attività commerciali e industriali dell’area. Nel giro di qualche anno, oltre al controllo delle risorse energetiche, la Cina riuscì ad accumulare concessioni minerarie, infrastrutture di trasporto aereo, poli marittimi e risorse tecnologiche. Tutto questo ad un prezzo ben superiore a quello che molti altri Paesi sarebbero stati disposti a pagare, e investendo su ciò che al tempo i più ritenevano di nessun valore.

E nel forziere di Pechino adesso risplende una gemma rara, di inestimabile valore. L’isola di Sri Lanka, situata davanti allo stato indiano del Tamil Nadu, gode di una posizone strategica  invidiabile, perfettamente in linea con l’asse che collega lo stretto di Malacca con il Mar Arabico. Nella propaggine a sud dell’isola sorge il porto di Hambantota che, distrutto durante lo tsunami del 2004, sta vivendo una nuova fioritura che lo renderà presto il secondo centro più importante dopo la capitale Colombo.

Il progetto guida, incentrato sulla ricostruzione e valorizzazione dell’area portuale e che si prevede sarà portato a termine entro il 2014, è stato finanziato per l’85% del costo complessivo da Pechino; un contributo quello cinese che viaggia a cifre di sei zeri, per un totale di oltre 759 milioni di dollari nel periodo tra gennaio e aprile, e di cui soli 100 milioni destinati alla realizzazione di opere ferroviarie. Così, con elargizioni annuali di 1miliardo di dollari, Pechino è diventato a tutti gli effetti il primo partner asiatico dello Sri Lanka. Ma non è tutto. La “generosità” del Dragone sull’isola di Ceylon si è estesa ben oltre le speculazioni commerciali, e lo sa bene Delhi. Molte delle armi utilizzate dall’esercito cingalese durante la ventennale guerra civile contro i ribelli Tamil recavano il marchio “made in China”.

In seguito ad un accordo stipulato nell’aprile 2007, Colombo ha ricevuto dall’impresa cinese Poly Technologies forniture militari per il costo di 37,6 milioni di dollari, ottenendo un equipaggiamento, che andando dall’artiglieria agli apparati per le forze navali, si è rivelato determinante nella repressione delle Tigri. Una mossa che non è piaciuta per nulla al governo indiano il quale, conscio della situazione precaria in cui verteva la regione meridionale del Tamil Nadu – retroterra strategico dei ribelli – fino a quel momento aveva ripetutamente fatto pressioni su Colombo perchè mettesse fine agli scontri armati con mezzi pacifici.

Insomma, la perla cingalese, oltre ad avere un ruolo chiave nella penetrazione marittima verso il Medio Oriente, rappresenta anche l’ennesimo sfoggio di muscoli con il quale il Dragone spera di intimorire il suo principale rivale asiatico, un rivale sul quale sta prendendo sempre più vantaggio. Con un investimento di 200 milioni di dollari e l’impiego di 8.500 lavoratori, Pechino ha avviato la costruzione di una strada che collegherà le città pakistane di Gwadar e Karachi; un’alternativa via di passaggio verso il Golfo Persico con lo scopo di baipassare le rotte marittime che solcano l’Oceano Indiano. Una moderna Via della Seta che, insieme alle perle rivierasche – per citare le parole del generale Fabio Mini, addetto militare in Cina – “darà a Pechino la possibilità, senza nemmeno sparare un colpo di fucile, di conquistare il controllo di risorse che gli altri Paesi, quelli cosiddetti civili e perfino democratici, hanno acquisito con la colonizzazione, la schiavitù, le guerre di preda e le devastazioni sociali e umane.”

Una linea immaginaria che collega Mar Cinese Meridionale al Golfo del Bengala per poi proseguire fino all’Oceano Indiano e quindi al Mar Rosso, sino allo stretto di Suez. Silenziosamente il Dragone tesse il “suo filo di perle”, il fiore all’occhiello di una strategia geopolitica che a poco a poco ne sta determinando un’inarrestabile avanzata. I porti tailandesi, quello birmano di Sitwe, le Coco Island (le Isole Andamane birmane), Chittagong nel Bangladesh e Gwadar nel Baluchistan pakistano sono alcune delle gemme più splendenti, conquistate da Pechino nell’ultimo ventennio attraverso la consolidazione di una partnership strategica basata prevalentemente sulla cooperazione nel settore delle infrastrutture e del commercio.

Insomma una politica oceanica che attraverso finanziamenti e partecipazioni alla costruzione di grandi opere ha permesso alla Cina di legarsi a doppio filo alle principali aree portuali e costiere del Sud-est asiatico, trasformandole gradualmente da importanti basi commerciali a strategici avamposti militari.

Ma il “viaggio verso Occidente” del Dragone ha un obiettivo ben preciso. Si stima infatti che i 2/3 degli approvvigionamenti energetici dei quali beneficiano i Paesi asiatici provengano dal Medio Oriente tramite rotte marittime che attraversano l’Oceano Indiano e lo stretto di Malacca. Il filo di perle si innesta così in una politica di contenimento che da una parte ha lo scopo di accerchiare e isolare l’India, allontanandola dai suoi vicini naturali, dall’altra punta ad assicurare a Pechino i diritti di navigazione e la protezione delle petroliere che provengono dai Paesi Arabi.

Il lavoro di trama e ordito cominciò negli anni 90′ quando la fame per le risorse globali iniziò a tormentare il Regno di Mezzo. Primi “cacciatori di perle” furono i miliardari cinesi d’oltremare che a quel tempo avevano di fatto il monopolio delle attività commerciali e industriali dell’area. Nel giro di qualche anno, oltre al controllo delle risorse energetiche, la Cina riuscì ad accumulare concessioni minerarie, infrastrutture di trasporto aereo, poli marittimi e risorse tecnologiche. Tutto questo ad un prezzo ben superiore a quello che molti altri Paesi sarebbero stati disposti a pagare, e investendo su ciò che al tempo i più ritenevano di nessun valore.

E nel forziere di Pechino adesso risplende una gemma rara, di inestimabile valore. L’isola di Sri Lanka, situata davanti allo stato indiano del Tamil Nadu, gode di una posizone strategica  invidiabile, perfettamente in linea con l’asse che collega lo stretto di Malacca con il Mar Arabico. Nella propaggine a sud dell’isola sorge il porto di Hambantota che, distrutto durante lo tsunami del 2004, sta vivendo una nuova fioritura che lo renderà presto il secondo centro più importante dopo la capitale Colombo.

Il progetto guida, incentrato sulla ricostruzione e valorizzazione dell’area portuale e che si prevede sarà portato a termine entro il 2014, è stato finanziato per l’85% del costo complessivo da Pechino; un contributo quello cinese che viaggia a cifre di sei zeri, per un totale di oltre 759 milioni di dollari nel periodo tra gennaio e aprile, e di cui soli 100 milioni destinati alla realizzazione di opere ferroviarie. Così, con elargizioni annuali di 1miliardo di dollari, Pechino è diventato a tutti gli effetti il primo partner asiatico dello Sri Lanka. Ma non è tutto. La “generosità” del Dragone sull’isola di Ceylon si è estesa ben oltre le speculazioni commerciali, e lo sa bene Delhi. Molte delle armi utilizzate dall’esercito cingalese durante la ventennale guerra civile contro i ribelli Tamil recavano il marchio “made in China”.

In seguito ad un accordo stipulato nell’aprile 2007, Colombo ha ricevuto dall’impresa cinese Poly Technologies forniture militari per il costo di 37,6 milioni di dollari, ottenendo un equipaggiamento, che andando dall’artiglieria agli apparati per le forze navali, si è rivelato determinante nella repressione delle Tigri. Una mossa che non è piaciuta per nulla al governo indiano il quale, conscio della situazione precaria in cui verteva la regione meridionale del Tamil Nadu – retroterra strategico dei ribelli – fino a quel momento aveva ripetutamente fatto pressioni su Colombo perchè mettesse fine agli scontri armati con mezzi pacifici.

Insomma, la perla cingalese, oltre ad avere un ruolo chiave nella penetrazione marittima verso il Medio Oriente, rappresenta anche l’ennesimo sfoggio di muscoli con il quale il Dragone spera di intimorire il suo principale rivale asiatico, un rivale sul quale sta prendendo sempre più vantaggio. Con un investimento di 200 milioni di dollari e l’impiego di 8.500 lavoratori, Pechino ha avviato la costruzione di una strada che collegherà le città pakistane di Gwadar e Karachi; un’alternativa via di passaggio verso il Golfo Persico con lo scopo di baipassare le rotte marittime che solcano l’Oceano Indiano. Una moderna Via della Seta che, insieme alle perle rivierasche – per citare le parole del generale Fabio Mini, addetto militare in Cina – “darà a Pechino la possibilità, senza nemmeno sparare un colpo di fucile, di conquistare il controllo di risorse che gli altri Paesi, quelli cosiddetti civili e perfino democratici, hanno acquisito con la colonizzazione, la schiavitù, le guerre di preda e le devastazioni sociali e umane.”

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