Reportage Brasil: São Paulo. Appunti di viaggio non immaginario (3/4)

A proposito dei cani di cui prima.
Fenomeno che non riguarda certo solo São Paulo e la sua élite o la classe immediatamente prossima, ma che rappresenta una mania, in un certo senso trasversale, delle classi “olgiatizzate” di tutto il pianeta. Qui però risulta più evidente, forse sempre per la dimensione dei numeri e dei luoghi.

Dicevamo acquistati più per il loro valore ed esibiti come oggetti esclusivi alla stregua di una borsa firmata o di un foulard. E allora, specie nel week end, sembra di partecipare a una elegante mostra canina (o della propria raggiunta e ostentata imbecillità) ed è tutto un esibire pechinesi, volpini, maltesi, barboncini nani (i più oltraggiati attraverso orride potature del  pelo, oggettivamente da denuncia) levrieri e levrieri afgani (i più esclusivi) chihuahua, yorkshire (i più pagliacciati, con scarpette, fiocchetti alle orecchie, cappottini, addirittura mantelline con manico sul dorso per sollevarli e non fare loro sporcare le zampe in caso di pioggia) carlini, bassotti, jack russel etc.
In effetti si scorgono solo cagnolini di razze costose dalle taglie minime -per essere facilmente trasportati- acconciati come bambole o giocattoli, trattati come neonati o al massimo come bambini deficienti ai quali ci si rivolge facendo la vocina stridula o accennando rimproveri tanto fermi quanto idioti.
Si dice che siano considerati animali da compagnia ma nessuno ha pensato di chiedere loro se davvero desiderano la compagnia di cotanti padroni…
Incontro un tizio che per superare tutti gli altri in esclusività, si è dotato di un San Bernardo e alla mia innocente osservazione che forse il Brasile non possiede il clima più adatto alla sua sopravvivenza, mi brucia dicendo che gli ha messo l’aria condizionata in camera…

Anche in mezzo a tutto questo caos ordinato percepisco qualcosa di piacevole: non si vedono in giro preti, monache, smart, scooteroni, microcar e relativi conducenti.
Vi pare poco?

Io si dice “eu”. Se si è in due si dice “a gente”. Se si più di due, si diventa “todo o mundo”.
Non è fantastico?

Ai piedi delle donne, quest’anno per effetto della moda, solo “ballerine”, sapatilhas, e questo le rende ancora più dolci e affascinanti.

Antonio tiene in auto un vecchio cellulare, un orologio in plastica e un portafoglio con una decina di dollari. Mi spiega che dopo l’ultimo “assalto”. durante il quale, dopo avergli puntato una pistola alla fronte, gli hanno portato via la Land Rover, questo può essere un piccolo rimedio contro “os ladroes”.
Dare subito quel che si ha a portata di mano, avendolo predisposto prima e di consistenza verosimile, facendo al limite anche finta di disperarsi un poco…
La messinscena viene chiamata “o kit do ladrao”, appunto.

“Rispetto a Rio dove le favelas sono disseminate all’interno della città noi siamo più fortunati, perché qui stanno tutte alle porte della città, fora…” mi dice, cercando di rassicurarmi, un poliziotto che poco prima aveva detto di non rimanere troppo in vista con la mia bicicletta in un certo posto del centro, perché poteva essere pericoloso.
Come dire lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Tanto se qualcuno sconfina ritrova presto la via di casa (o con le buone o con le cattive).
Interessante questo topografizzare il disagio e l’esclusione.

All’interno della diseguaglianza sociale si distinguono, anzi spiccano, due tipi di razzismo. Un primo, per così dire orizzontale, puramente razziale, e un secondo verticale, che potremmo definire classista. Entrambi sono sfumati, appena percepiti, ben radicati e soprattutto ben diluiti nella cultura e nella società.

Iniziamo dal primo, il più dissimulato; quello orizzontale.
Alla riprova dei fatti sembra di essere in presenza di una sorta di “razzismo dolce”. Un razzismo cioè accettato da tutti per quello che pare essere: una legge di natura. Un razzismo per cui le cose sono così in maniera naturale e non vale neanche la pena starne a discutere. Le vecchie catene sono state sostituite nel tempo da ragnatele invisibili e informali che segnano la società in maniera netta.
Un vecchio adagio diceva: “nego sabe estar no seu lugar” il negro sa stare al suo posto o conosce dove è il suo posto. E in effetti pare che negli ultimi 125 anni (tanti ne sono passati dall’abolizione della schiavitù da parte della princesa Isabel con la cosiddetta Lei Áurea (Legge Aurea) questa idea si sia diluita, diffusa, accettata, fino a penetrare nel DNA; nella quotidianità.

Quella legge, notava L.Sakamoto in un suo articolo tradotto per la Stampa dal titolo “Brasile: è stata davvero abolita la schiavitù?” non prevedeva [naturalmente] alcuna forma di inserimento nella società per i milioni di schiavi affrancati e tanto meno un risarcimento per gli anni di schiavitù,  onde consentire loro di iniziare una vita indipendente [fantascienza] .
Gli schiavi vennero sostituiti dalla manodopera straniera immigrata, (italiani perlopiù) che riceveva un salario per il lavoro prestato. I fazendeiros non avevano più bisogno di comprare i lavoratori, adesso potevano pagarli solo il minimo necessario per sopravvivere. O anche meno. Da quel nuovo tipo di lavoro schiavizzato sono così derivate le forme contemporanee di schiavitù (sfumate o soft, oppure più manifeste e concentrate specie nelle vaste zone rurali). Migliaia di lavoratori poveri sono infatti ancora vittime della schiavitù negli allevamenti di bestiame, nelle piantagioni di soia, cotone, mais, riso e canna da zucchero, nella produzione e vendita del carbone, negli sweatshop dei vestiti e negli impianti idroelettrici. La maggior parte sono uomini (95%), il 40% è analfabeta. Abbandonano le proprie regioni per cercare lavoro altrove, in fuga dalla povertà e dall’assenza di opportunità. Spesso vanno ad alimentare il bacino dei disperati delle megalopoli.
La fine della schiavitù (in tutte le sue forme specie in quelle più sfumate e accettate da tutti di cui stiamo parlando) il suo annientamento, è ancora un sogno lontano.
Cambiano i termini, ma la sostanza resta invariata.

Naturalmente nessuno si sognerebbe di vietare o mettere per iscritto divieti ai neri, ci mancherebbe, ma nella realtà sono ben presenti, invisibili ma tracciati nella cultura e nelle identità. Ne viene fuori un aspetto poco conosciuto, ma assai marcato se ci si vive per un po’.
Ognuno conosce il proprio territorio. Ognuno sembra sapere in anticipo il proprio destino. Poiché come nota Bauman “chiunque non rivesta il tipo giusto di carica o di ruolo e compaia “non invitato” in circostanze diverse da quelle normalmente previste, decise e gestite a livello ufficiale, è per definizione un intruso”. E in base a questo ragionamento che i coloured vengono visti -in alcuni contesti e/o territori – come degli intrusi. E senza che ci sia nulla di codificato o scritto, vengono trattati come tali.
Per questo vedrete solo certi mestieri appannaggio di alcuni colori della pelle: inservienti, domestiche creole, nere o mulatte, bambinaie, portieri dei palazzi, addetti alle pulizie, spazzini, operai edili (nordestini) poliziotti e/o soldati in genere. Ah dimenticavo; i neri hanno una prerogativa esclusiva per esercitare anche altre funzioni: soprattutto delinquenti, barboni e detenuti nelle carceri.  

Di contro i personaggi delle sempiterne telenovelas sono per lo più bianchi e biondi e sembrano tutti abitare in Norvegia o Svezia. Naturalmente il nero c’è ma è rappresentato per quello che fa nella società; domestico o giù di lì, o attraverso qualche eccesso caricaturale. È un eccesso, chiaro. Ma finora ancora non ho visto una novela dove una ragazza bianca di buona famiglia perde la testa per un pubblicitario nero, che ha appena fatto ristrutturare il suo attico “no Leblon” per ricevere alcuni pensatori mulatti e dar vita a un think-tank per tentare di risolvere il problema delle favelas, mentre alcuni servitori bianchi gli servono una caipiroska bem geladinha…

A proposito. All’esclusivissimo Joquei, (club ippico di São Paulo) neanche i cavalli sono neri…

Comunque molte cose stanno cambiando, forse anche qui per le dimensioni dei numeri e per la necessità continua di competizione dei mercati, che ormai mobilita tutte le fasce sociali o forse più semplicemente per necessità di integrazione e prevenzione del disagio. Un governo Lula fa, ha stabilito di riservare ai neri delle quote di accesso all’università (come le quote rosa per intenderci). Quando la misura per risolvere il problema ne evidenzia e ne amplifica la portata.

Per il secondo razzismo, “verticale” o di classe, (antico quanto il mondo e qui solo riprodotto in termini più ampi e marcati) vale il discorso che lega ormai l’appartenenza dell’individuo a una “ipotetica” classe, insieme alla sua possibilità di accesso ad alcuni beni e servizi di carattere sempre più esclusivo, almeno di quella esclusività crescente e oggettiva, che ha l’obiettivo –appunto- di “escludere” dal banchetto sempre più persone.
L’obiettivo è isolarsi tra pari (in un nuovo apartheid) dal resto della popolazione che rimane tagliata fuori e costruirsi stili di vita inespugnabili, concorrendo costantemente alla loro difesa.
Si arriva così al disagio, all’insofferenza, all’intolleranza più o meno manifesta, verso chi non è all’altezza del compito o del rango raggiunto. Ci si stabilizza in una sorta di sbrigativo razzismo di classe verso chi è differente e soprattutto non in grado di consumare come lo standard prevede (o meglio di guadagnare e accedere a beni e livello di vita previsti dalle guidelines della classe dominante).

Tutti i giorni vengono presentati dalla televisione alcuni episodi particolarmente efferati che naturalmente conquistano l’immaginario collettivo e vengono in seguito narrati.
Appena arrivato, ad esempio, chi mi vedeva in giro in bicicletta non mancava di rammentarmi l’incidente occorso a un ciclista, che alle 4 di mattina percorreva contromano la centralissima Avenida Paulista, preso in pieno da un tizio ubriaco. Nello scontro inevitabile (e qui viene il bello) l’auto trancia di netto il braccio destro del ciclista che rimane a terra e rischia di morire dissanguato. L’investitore in preda al panico fugge con il braccio del ciclista incastrato tra le lamiere dell’auto e dopo qualche chilometro decide di disfarsi del braccio gettandolo nel fiume poco lontano. Qualche ora più tardi si costituisce. Del braccio nessuna traccia quindi non è stato possibile riattaccarlo, puntualizza sempre il narratore di turno. Io annuisco e riprendo a pedalare lungo i marciapiedi che fortunatamente sono abbastanza larghi per sopportare sia la mia bicicletta pieghevole che la mia espressione incredula.

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