30 aprile 1982. Trent’anni fa l’eccidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo

Nel trentennale della sua morte, l’omicidio è tuttora coperto di mistero. Fu ucciso soltanto dalla mafia? Un libro di Paolo Mondani e di Armando Sorrentino getta pesanti ombre sulle verità ufficiali di quel delitto

Pio La Torre fu ucciso la mattina del 30 aprile del 1982, insieme al suo autista e guardia del corpo Rosario Di Salvo mentre si stava recando nella sede palermitana del partito. Il suo forte impegno contro la mafia era stato ampiamente tollerato da Cosa nostra, così com’era successo in altri casi, fin quando i mafiosi non si convinsero che le sue idee per contrastarli potevano mettere in serio pericolo i loro patrimoni. Infatti, in Parlamento giaceva da tempo un progetto di legge, redatto da lui oltre che da Cesare Terranova, che introduceva nel codice penale un reato fino a quel momento inesistente: l’associazione mafiosa. Il nuovo articolo 416-bis, definiva il sodalizio criminoso in termini specifici, assi differenti dalla semplice “associazione a delinquere” di cui fino a quel momento erano stati accusati i mafiosi dalla magistratura, uscendone quasi sempre assolti per insufficienza di prove.

L’ASSOCIAZIONE MAFIOSA. La Torre individuava nell’organizzazione mafiosa un’associazione a delinquere di tipo particolare, perché gli affiliati «si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti». Nel testo poi modificato nel 1992, si è reso ancora più stringente l’idea originaria ma non del tutto completa di La Torre sull’organizzazione mafiosa, individuando le sue finalità nel «controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali».

E non era tutto, perché il nuovo reato prevedeva la confisca dei patrimoni frutto dell’associazione mafiosa e dei reati da essa compiuti. Questo fu probabilmente il pericolo maggiore che Cosa nostra individuò nel progetto La Torre. I mafiosi erano abituati al carcere, ai processi, alle requisitorie dei pubblici ministeri. Prima che entrasse in vigore nel nostro ordinamento una nuova norma della legge penitenziaria (il famoso 41-bis) che impediva ai mafiosi di avere assidui rapporti con l’ambiente esterno, i boss erano abituati all’idea di vivere per un certo periodo di tempo nel “Grand Hotel Ucciardone”, come era chiamato ironicamente dai cronisti siciliani il carcere palermitano. Ciò che non potevano tollerare era che lo Stato individuasse e requisisse i “piccioli”, quell’accumulazione originaria di capitale che portava loro il dominio sul territorio e il potere nella società mafiosa.

Nonostante le sue battaglie parlamentari e le denunce giornalistiche, i comizi, il coraggio personale di Pio La Torre e di altri deputati della sinistra, il progetto di legge languiva in Parlamento per la chiara opposizione della DC, la cui componente siciliana era evidentemente pressata dagli interessi mafiosi. Fu così che le norme in materia di confisca dei patrimoni divennero oggetto delle causidiche discussioni dei solerti avvocati siciliani, che individuavano in esse profili di incostituzionalità, ricorrendo ad un garantismo che sarà destinato purtroppo a nascondere nefandezze di ogni genere e, soprattutto, una richiesta di impunità per le classi dirigenti profondamente inquinate dai rapporti con la criminalità organizzata.

OMICIDIO DI MAFIA? L’omicidio di La Torre da parte della mafia significò essenzialmente un preventivo allarme verso i partiti politici e il Parlamento: qualunque normativa finalizzata a requisire le ricchezze dei mafiosi sarebbe stata interpretata come un atto di guerra, al quale Cosa nostra avrebbe risposto nei termini dovuti.

In modo frettoloso e assai sospetto maturò l’idea di inviare a Palermo il generale Dalla Chiesa, quello che aveva già combattuto la mafia (mise alla sbarra Luciano Liggio per l’assassinio di Placido Rizzotto) e condotto una spietata guerra contro il terrorismo, determinando il primo di una lunga serie di pentimenti (Patrizio Peci) e disarticolando così dall’interno le Brigate rosse. Sulla nomina di Carlo Alberto Dalla Chiesa finirono per convergere molte aspettative, alcune delle quali senza un riscontro con la realtà.

NEL TRENTENNALE I DUBBI RIMANGONO. Il processo che ha condannato la Cupola per quell’omicidio e individuato in Pino Greco (detto “Scarpuzzedda”) e Salvatore Cucuzza gli esecutori materiali del crimine non ha potuto spazzare via le ombre che da sempre si addensano su quell’episodio. In un libro appena pubblicato da Paolo Mondani e Adriano Sorrentino («Chi ha ucciso Pio La Torre?», Lit Edizioni), si scandagliano diversi fattori che potrebbero inserire il delitto al di fuori di un movente esclusivamente mafioso. Nel libro si raccontano molti episodi inediti, che gettano una luce sinistra perfino sul Partito comunista siciliano, o almeno su alcune cooperative “rosse” . Il segretario regionale del Pci avrebbe potuto essere eliminato per un intreccio di interessi non soltanto mafiosi ma propriamente “politici”. Secondo alcuni, Cosa nostra, dal suo omicidio, avrebbe ottenuto soltanto l’accelerazione dell’iter di approvazione della legge sul 416-bis, cosa che puntualmente avvenne e quindi non aveva alcun interesse ad eliminare La Torre. Forse La Torre era venuto a conoscenza di cose che non doveva sapere. Alcune sue interrogazioni parlamentari disegnavano un contesto siciliano dal quale sembrava evidente la sua conoscenza di una struttura segreta come Gladio, allora ancora sconosciuta a tutti al di fuori dei maggiorenti democristiani.

La moglie Guseppina Zacco ha dichiarato che, negli ultimi mesi della sua vita, si incontrava sovente con un americano con il quale faceva lunghe passeggiate. Chi era l’americano? E chi rappresentava? Era forse un agente della Cia? Dubbi che l’indagine di Mondani e Sorrentino ripropongono con molta forza e che vanno ad aggiungersi ai tantissimi misteri palermitani, che forse non saranno mai risolti.

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