Trattativa Stato-mafia. Indagato ex ministro giustizia Conso

ROMA –  L’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso è indagato per false informazioni a Pubblico ministero nell’ambito dell’ inchiesta condotta a Palermo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. Sentito dai pm sulla revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi, il guardasigilli che fu in carica dal febbraio del 1993 ad aprile del 1994 disse all’epoca di “avere agito in solitudine”.

Una versione che non ha convinto i magistrati. La Procura di Palermo non contesta dunque né la trattativa né di aver ceduto alle pressioni mafiose, ma solo le false informazioni che Conso avrebbe dato al Pm.

Il nome dell’ex ministro entra nell’inchiesta dopo una sua audizione alla commissione Antimafia dell’11 novembre del 2010 nel corso della quale affrontò il capitolo dei 41 bis fatti scadere o non rinnovati. L’1 novembre del 1993 non vennero rinnovati ben 140 decreti di carcere duro e altrettanti vennero fatti scadere tra fine novembre dello stesso anno e gennaio del 1994. «Una scelta fatta in totale autonomia» ha sempre ripetuto l’ex Guardasigilli, sia all’Antimafia che ai pm di Palermo. Ma per la Procura, invece, proprio l’alleggerimento del carcere duro sarebbe stato uno dei punti al centro della trattativa Stato-mafia.

In pratica, dopo un lungo dibattito interno e la risoluzione di una controversia giuridica di non poco momento, la procura non gli contesta nè la trattativa nè tanto meno di avere ceduto alle pressioni mafiose, ma solo le false informazioni ai pm. E per indagare su questo tipo di reato occorre attendere la definizione del processo in tribunale.

Nei giorni scorsi era stato l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino a essere iscritto nel registro degli indagati della Procura di Palermo, con l’ipotesi di falsa testimonianza. Nell’indagine sono coinvolti pure i generali Mario Mori e Antonio Subranni, l’ex tenente colonnello Giuseppe De Donno, l’ex ministro dc Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano e Nino Cinà. Recentemente è stato riascoltato come teste, un altro ex ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, a proposito di alcuni fatti da lui raccontati nel recente libro «Pax mafiosa o guerra?», e per altre circostanze. Obiettivo dell’accusa, chiarire le ragioni del siluramento del «duro» Scotti, sostituito al Viminale, nei giorni caldi del ’92, tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, proprio da Mancino. La posizione dell’ex vicepresidente del Csm è cambiata, nelle ultime settimane, dopo che lo stesso ex presidente del Senato aveva deposto al processo Mori, il 24 febbraio scorso. Sapeva o no, Mancino, dei contatti fra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino e ne conosceva le finalità? Secondo i magistrati, sì: e lo scopo era cedere al ricatto dei boss e offrire loro impunità, in cambio della rinuncia all’aggressione terroristica e ai progettati omicidi di uomini politici. L’ex titolare del Viminale aveva sempre escluso anche di avere incontrato Paolo Borsellino, il giorno del suo insediamento al Viminale, il primo luglio 1992. Al processo Mori aveva fatto una parziale correzione di rotta. Ma non aveva saputo spiegare perchè, nel ’93, lo Stato rispose alle bombe di Roma, Firenze e Milano facendo togliere il carcere duro a circa 500 mafiosi.

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