ROMA – La Conferenza dell’ONU di Doha, che avrebbe dovuto decidere le misure per contrastare il cambiamento climatico, dando seguito al Protocollo di Kyoto, si chiude con l’impegno a mantenere aperto il negoziato. Il che significa, in termini reali, l’annuncio per il futuro di disastri naturali sempre più devastanti.
A convincere la comunità internazionale dell’urgenza delle decisioni non è bastato il ripetersi sempre più frequente di fenomeni naturali eccezionali (Katrina, Sandy) con le conseguenti stragi di vite umane e danni ambientali (che ormai interessano anche il Mediterraneo (Taranto); il crescente flusso di immigrati ambientali; la denuncia della stessa Banca mondiale; il rapporto Unep sul progressivo riscaldamento del pianeta (da 3 a 5 gradi centigradi in più entro il secolo) se non si interviene tempestivamente a ridurre la percentuale di gas climalteranti presenti nell’atmosfera.
Sembra che nulla riesca a scalzare quel gioco di interessi che tiene inchiodata l’economia mondiale all’uso deleterio di combustibili derivati da idrocarburi. Si pensi che ancora negli ultimi giorni l’Unep ha ricordato che solo nel 2011 i sussidi ai combustibili fossili sono stati di 523 miliardi di dollari: una cifra impressionante se confrontata con la fatica che fa l’ONU a trovare qualche decina di miliardi di dollari da dare ai paesi sottosviluppati per misure di adattamento.
La conferenza di Doha si sarebbe dovuta chiudere alle 18 di venerdì scorso, ma Abdullah Bin Hamad Al-Attiyah, Presidente della COP18 ex dirigente di Qatar Petroleum, ha pensato bene di mandare tutti a casa 24 ore dopo, cercando di salvare il salvabile. Il risultato è che rimane in piedi una parvenza di negoziato. Con due motivi di preoccupazione: la mancanza di impegni seri e cogenti ed il pericolo che questa lenta guerra di posizione cominci ad intaccare non solo i contenuti di un possibile accordo globale, ma le basi stesse della Convenzione Onu. Lo ha chiarito senza tanti giri di parole Todd Stern, caponegoziatore americano, secondi cui il nuovo accordo globale futuribile non potrà “sottostare ai principi istitutivi della Convenzione”. Che tradotto dal gergo diplomatico fa intendere che concetti come “equità” e “responsabilità comune, ma differenziata” (chi ha inquinato di più per più anni deve impegnarsi e pagare di più), dovranno essere ripensati alla radice.
Il compromesso inventato nelle ultime ore per mantenere in piedi il negoziato è il “Doha climate gateway”, la porta d’ingresso per il futuro. In sostanza un misero pacchetto di misure che dovrebbero servire di “ponte” per passare dal vecchio regime di lotta al cambiamento climatico, basato su impegni vincolanti e su una prospettiva di chiara definizione delle responsabilità, a quello nuovo, dove sarà la parola “volontario” a tenere banco. L’architrave dell’accordo è l’approvazione di una sorta di Kyoto 2. Inizierà il 1 gennaio 2013 e si concluderà nel 2020, ma per ora è stata approvata solo la sua forma “legale” perché nessun impegno sostanziale è stato preso sul taglio reale delle emissioni di CO2, di conseguenza se ne riparla il prossimo anno. A questo nuovo regime parteciperanno soltanto Unione Europea, Australia, Svizzera, Norvegia, che assommano sì e no al 15% delle emissioni totali. Tra i pochi dati che vengono citati, la possibilità per i Paesi membri del Protocollo di tagliare entro il 2020 le proprie emissioni di una percentuale compresa tra il 25 ed il 40%. Se si considera che l’UE ha già raggiunto il 17% e che agevolmente raggiungerà il 25-26% entro il 2020 senza ulteriori sforzi, si può facilmente il grande impegno con cui l’Europa si pone come paladina del clima.
Sul Fondo verde, deciso a Copenaghen, tolti gli stanziamenti unilaterali di alcuni Paesi come la Gran Bretagna , la Germania e la stessa UE che arriveranno a malapena a 7 miliardi di dollari totali, l’impegno delle comunità internazionale è sostanzialmente assente. Gli Stati Uniti si sono nettamente opposti ad ogni formalizzazione di impegni sullo stanziamento di fondi per sostenere politiche di taglio delle emissioni e di adattamento al cambiamento climatico. Nonostante le cifre del tornado Sandy che saranno caricate sul contribuente americano abbiano abbondantemente superato gli 80 miliardi di dollari. Di fronte a tutto questo il Governo italiano si è presentato con i compiti di casa in disordine. La bozza di Strategia energetica nazionale in discussione si focalizza soprattutto sui combustibili fossili: Italia come possibile “hub” del gas europeo, aumento delle trivellazioni petrolifere ed aumento dell’estrazione di metano. Di tutto questo però all’assemblea plenaria il Ministro Clini non ha parlato, citando solo la crescita esponenziale delle rinnovabili, ma senza chiarire che è proprio il suo Governo che sta contribuendo ad affossarle.
L’IPCC, il panel di scienziati che studia il cambiamento climatico. è stato più volte chiaro: “per contenere il riscaldamento entro i 2 gradi centigradi picco delle emissioni entro il 2015 e poi discesa”, ma la comunità politica internazionale che a Doha ha approvato il “Gateway” finge di non saperlo. Ed il nostro Governo, adesso anche in crisi politica, si guarda bene dallo scrollarla.
Il segretari generale del sindacale internazionale ITUC, Sharan Burrow, ha commentato “Lasciamo questa conferenza chiedendo quando la lungimiranza tornerà a guidare la comunità politica internazionale. In un pianeta morto non ci saranno né posti di lavoro né transizione allo sviluppo sostenibile”.