La “Svolta di Salerno”, l’unità nazionale guardando con gli occhi di oggi

ROMA – È sempre utile riflettere sulla politica che fece la storia soprattutto  oggi che l’Italia si trova nel mezzo di una crisi profonda. Riflettere  senza continuismi, lontani dal fatalismo dell’inevitabilità della libertà e dai ricorsi storici. L’occasione in questi giorni è data dal  sessantanovesimo anniversario della “Svolta di Salerno” del marzo del ’44. Fu un passaggio decisivo nella rivoluzione democratica italiana.

Era un’altra epoca, un altro quadro internazionale, altri politici, un altro Vaticano. Non c’era la Repubblica fondata sul lavoro, le donne non votavano, la democrazia non si sapeva cosa fosse. L’Italia era povera, trascinata in guerra da un dittatore, invasa al nord dall’esercito di Hitler e occupata al sud dagli alleati. Fame, sbandamento dell’esercito e dei giovani, dignità nazionale umiliata.  Gli antifascisti usciti dal carcere e dalla clandestinità, tornati dal confino e dall’esilio si unirono per  liberare con la Resistenza  l’Italia. Si riorganizzava la democrazia con la nascita di nuovi partiti politici cattolici, socialisti, comunisti e liberaldemocratici.

Dopo 17 anni di esilio il ritorno di Togliatti

Il 27 marzo del ’44, arrivò a Napoli, dopo 17 anni di esilio, Palmiro Togliatti (alias Ercoli, capo del PCI) per promuovere la “Svolta di Salerno”.  Nella Risoluzione del Consiglio nazionale del PCI (31 marzo 1944) si legge che occorreva dare all’Italia “un nuovo governo, di carattere transitorio, ma forte e autorevole per l’adesione dei grandi partiti di massa, un governo capace … di creare un esercito italiano forte che si batta sul serio contro i tedeschi; un governo capace, con l’aiuto delle grandi potenze democratiche alleate, di prendere delle misure urgenti per alleviare le sofferenze delle masse e far fronte con efficacia ai tentativi di rinascita della reazione”. Condizioni necessarie erano “l’unità del fronte delle forze democratiche e liberali antifasciste” e lo spostamento della questione istituzionale monarchia o repubblica, che impediva l’incontro tra antifascismo e  monarchia condannando i primi alla marginalità politica, a dopo la fine della guerra. La scelta  sarebbe stata fatta “liberamente da tutta la nazione, attraverso la convocazione di una Assemblea nazionale costituente, eletta a suffragio universale diretto e segreto”. Questa posizione aprì le porte ad un nuovo e transitorio governo Badoglio, composto da monarchici e da tutte le forze antifasciste. L’antifascismo divenne classe dirigente mentre il ruolo della corona veniva drasticamente ridimensionato.

I partiti operai e popolari diventavano forza di governo

 Il movimento popolare partigiano fu riconosciuto come soggetto nazionale  della guerra di Liberazione. La “Bomba Ercoli”, come la chiamò Pietro Nenni, fu un vero e proprio rovesciamento storico. Per la prima volta le forze democratiche erano unite e i partiti operai e popolari diventavano forze di governo. Questa iniziativa politica fu subita dalla destra liberale e mal digerita dall’insieme delle forze socialiste e di sinistra (compresa una parte del PCI) che la consideravano una sorta di tradimento della rivoluzione socialista che per loro era a portata di mano. Il Vaticano insieme ai reazionari e ai conservatori auspicavano un regime autoritario senza Mussolini e leggevano il tutto come una subdola manovra degli agenti di Mosca.
Fortunatamente, c’erano i cattolici democratici e i popolari che con De Gasperi accolsero quella politica. Certamente quella politica fu concordata da Togliatti con Stalin stesso.

L’unità nazionale stroncata dalla guerra fredda

L’unità nazionale fu, poi, drammaticamente stroncata dalla guerra fredda.
Ho voluto ricordare questo passaggio fondante della Repubblica anche perché in questi giorni si è tornati a parlare in modo generico e a volte strumentale dell’unità nazionale o di larghe intese. E’ saggio auspicare l’unità delle forze democratiche perché seppur non essendo in una situazione di guerra, la crisi è pesantissima. È pesante la sofferenza delle fasce popolari e dei ceti medi. Il risultato elettorale, l’astensionismo e il M5S ci fotografano un’Italia scontenta, divisa e smarrita. Tutti siamo indignati per la recessione, le sfacciate ineguaglianze, i bassi redditi, l’evasione fiscale, il lavoro perso o precario, i giovani e le donne senza prospettive e lavoratori a cui è stata aumentata in modo iniquo l’età pensionabile. Crisi drammatica per le imprese, gli artigiani e i commercianti, dal nord al sud. La crisi sociale è intrecciata al cancro della questione morale: pezzi delle classi alte, della finanza e della politica che usano per i propri privilegi le istituzioni, il denaro pubblico, la corruzione e la collusione mafiosa.
Certamente senza l’unità delle forze sane non se ne esce.
Ma questa è osteggiata da anni da una campagna dei media, dal “Corriere” a Travaglio, che indica nella politica e nei partiti, senza alcuna distinzione, il capro espiatorio della crisi: colpa dei partiti e dei politici e si occulta il fatto che nella “seconda repubblica” non ci sono partiti come li indica la Costituzione (salvo il PD) ma si chiamano partiti gruppi elettorali alle dipendenze di ricchi e di proprietari di media. In questa situazione il PD si è messo a disposizione con Bersani per guidare un governo di cambiamento per combattere la recessione, dare lavoro e ridurre costi e privilegi della politica. Il dato elettorale impone che più soggetti, cominciando dal M5S, facciano la propria parte per non ostacolare la formazione del l’unico governo di cambiamento possibile.

L’unità nazionale non fu “unità indistinta”, di tutti

Riflettendo, ora, sulla Svolta di Salerno e sui passaggi che portarono alla politica di unità nazionale, ci accorgiamo che quella politica unitaria fu possibile anche perché le classi dominanti di allora seppero fare due scelte di fondo che aprirono la strada all’incontro tra le forze democratiche. La prima,  fu l’odg Grandi e poi l’arresto di Mussolini; la seconda, dopo molti mal di pancia e l’irresponsabile condotta dell’otto settembre, la monarchia stipulò “l’armistizio breve” che portò (tardivamente) alla dichiarazione di guerra alla Germania  nazista. Certamente chi operò quelle scelte non aveva in mente un’apertura democratica, essa fu imposta dai rovesci militari e dagli accordi presi da Roosevelt, Churchill e Stalin nella Conferenza di Mosca (ottobre 1943). L’unità fu possibile dopo, non prima, che le forze conservatrici e moderate avessero saldato il conto con Mussolini. L’unità  nazionale quindi non fu “unità indistinta” di tutti gli italiani, anzi, si aprì una fase di guerra civile in quanto le forze antifasciste si impegnarono in una lotta di Liberazione sia contro l’occupante nazista, sia contro i responsabili della guerra e dell’asservimento ad Hitler.
Ora, sarebbe assolutamente sbagliato e assurdo fare un pur pallido parallelismo con le persone e le vicende di oggi.  Però è possibile cogliere la sostanza politica di quella vicenda storica e trarne se possibile degli insegnamenti.

Non  credibili accordi con chi ha portato l’Italia nella crisi

Per risolvere la crisi attuale, non è credibile e possibile fare accordi politici con chi ha portato l’Italia nella crisi, ha screditato la nostra dignità portando il Parlamento a votare su Ruby, ha frontalmente attaccato la giustizia e lo Stato di diritto ed è sotto inchiesta per aver comprato dei parlamentari. I conservatori italiani, è qui il punto,  non hanno avuto la forza di rinnovarsi e sono diretti ancora da  Berlusconi. È su di loro che ricade la pesante responsabilità di tenere bloccata la democrazia. E di questo, non solo il Colle ma tutte le forze che hanno a cuore il bene dell’Italia debbono averne piena coscienza. Anche nel PPE è avanzata questa consapevolezza, mentre non pare altrettanto avvertita l’amministrazione Obama che stenta a riconoscere le forze impegnate a combattere le politiche recessive della Merkel e ad affermare una svolta democratica in Italia e in Europa.

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