Amministrative. Il tracollo del berlusconismo tra novità e sconfitte

ROMA – Cominciamo dai dati. I numeri sono una cosa certa, disegnano una mappa, raccontano, più di ogni possibile commento, quello che è successo fra domenica e lunedì in questo nostro strano Paese.

Ignoriamo per un attimo le grandi città su cui si è concentrata tutta l’attenzione mediatica. E lo scenario che si disegna dimostra senza ombra di dubbio che la maggioranza di governo, e il progetto e la “chiamata alle armi” del berlusconismo ha subito una battuta d’arresto. Dei 16 capoluoghi di provincia già scrutinati (sul totale di 23), 7 vanno al centrosinistra (Savona, Ravenna, Arezzo, Siena, Fermo, Benevento, Villacidro), uno al centrodestra (Caserta), mentre in otto se la vedranno al ballottaggio (Novara, Varese, Pordenone, Rovigo, Rimini, Grosseto, Crotone, Iglesias, con il candidato di centrosinistra Perseu al 49,9%). Nelle altre citta’ il risultato provvisorio vede il centro sinistra prevalere a Salerno, Barletta, Carbonia e Olbia, il centro destra a Latina e Reggio Calabria, mentre al ballottaggio e’ indirizzata Cosenza. Per quanto riguarda le elezioni provinciali, in tre casi (Gorizia, Ravenna e Lucca) il presidente è espressione del centrosinistra, a Treviso della Lega a Campobasso del centrodestra. Sei i ballottaggi: a Vercelli, Mantova, Pavia, Trieste, Macerata e Reggio Calabria. Certo, siamo ancora al primo round, ma il segno è inequivocabile.

Altro dato interessante, prima di dedicarci a Milano, Napoli, Torino e Bologna, è quello dell’astensionismo. In molti hanno disertato le urne. Ma, nonostante i timori (le dichiarazioni di Nicola Zingaretti di ieri poco dopo le 15 sono state sicuramente affrettate), l’astensionismo non ha penalizzato il centro sinistra. Anche qui emerge che la disperata chiamata alle armi lanciata da Silvio Berlusconi nelle ultime settimane non ha ottenuto il risultato dovuto. I moderati questa volta non si sono fatti intimidire dai toni da ultima spiaggia. Uno che unisce le proprie sorti giudiziarie al voto amministrativo definendo le elezioni una sorta di referendum per l’abolizione dei pubblici ministeri questa volta non ha convinto. Non davanti alla crisi economica e sociale che stiamo attraversando. Non davanti al crollo di credibilità internazionale che stiamo subendo grazie alle scellerate scelte di alleanze e strategie fatte dal grande intrattenitore (da Putin a Gheddafi fino allo strappo con la Francia e con l’Unione europea). I moderati sono moderati. Noi puoi pensare che terrorizzandoli alla morte un mese si e un mese no (facciamo gli ottimisti, una volta tanto) questi si imbranchino in una crociata estremistica di mazzettatori delle mura istituzionali. E poi quella roba “sporca” tirata fuori all’ultimo secondo prima dalla Moratti e poi da tutti i giornali e media del premier su Pisapia. Quella uscita è stata peggio di aver definito i pm “un cancro”. E ha terrorizzato i moderati, che forse non hanno votato per il centro sinistra, anzi di questo ne sono convinto, ma hanno preso la decisioni profondamente politica di non recarsi alle urne e lasciare il cavaliere e la sua corte solo nella tempesta.

E qui arriviamo per forza di cose a Milano. La capitale “immorale” grazie alle infiltrazioni della ‘ndrangheta, ai festini del premier e allo scodinzolare sguaiato dei tanti Mora, Fede, Corona e comparse varie, al doppio binario spregiudicato dei leghisti, ai vip strafatti di coca, alle decine di migliaia di persone neo disoccupati o più ottimisticamente in cassa integrazione, all’incapacità palese della Moratti di governare qualsiasi cosa che non sia un piccolo e autoreferenziale salotto borghese, ha voluto dare un altro segnale. Quello di volersi riconquistare il titolo di “capitale morale”. Perfino il voto (il 5%) del Movimento 5 stelle rientra in questo quadro. Non ha vinto il Pd, ma Pisapia e Vendola a Milano. Ha vinto chi rivendica la propria storia, non la camuffa in neo-moderatismo, e ne fa un progetto di governo. Un  risultato del genere senza Pisapia a Milano sarebbe stato impensabile.

Come non ha vinto il Pd a Napoli. Anzi, qui è stato sonoramente e doppiamente sconfitto. E qui Vendola ha ceduto dove non doveva cedere. Lo spettacolo degli ultimi mesi lascia esterefatti. Pur di non scaricare per sempre la fallimentare politica (e l’incredibile centro di potere) rappresentata da Bassolino, il Pd ha scelto di puntare su tutti i cavalli sbagliati. Portandosi dietro, probabilmente in una logica di scambio fra Bersani e Vendola (a te Milano a me Napoli) letteralmente suicida, anche gli elettori di Sel. Tutti sapevano che De Magistris era il candidato forte. E Luigi lo ha dimostrato. Se lo schieramento di centro sinistra si fosse presentato unito forse non ci sarebbe stato neppure bisogno di un ballottaggio. Ora sta al Pd (e a questo punto anche a Vendola) decidere se vuole ricominciare a fare politica davvero o suicidarsi definitivamente in Campania.

Torino anche non è una vittoria del Pd, dell’attuale “forma” del Pd. Ha vinto per la terza volta Chiamparino, osteggiato e marginalizzato come provinciale da anni dal suo stesso partito, e Fassino, che a Torino è andato a candidarsi per leccarsi le ferite delle tante marginalizzazioni infertegli dai suoi stessi compagni. Fassino va a governare la prima, e a questo forse unica, città industriale italiana. Con davanti un interlocutore spregiudicato e politico (profondamente politico) come Marchionne e il suo progetto di finanziarizzazione e esternalizzazione della Fiat. Ne avrà di gatte da pelare. A lui tutti i miei auguri.

Bologna è l’ennesimo schiaffo, poi, al Pd. Con quel 10 per cento ai grillini che raccontano quanto sia profondo e forse irreversibile il solco che si è aperto fra il partito di Bersani e gli elettori della sua roccaforte emiliana. Con i ceti popolari che si fanno incantare dalla Lega e quello più radicale e deluso dal Movimento cinque stelle. Se il Pd non analizzerà davvero quello che sta succedendo in Emilia oggi, rischia di perdere non solo le elezioni dei prossimi anni, ma anima e popolo. Anima e popolo. Lo ripeto, perché sono fattori/valori inscindibili. E la loro assenza, e il loro mancato ascolto, sono la vera debolezza dei democratici.

E qui arriviamo a Grillo. Che è la vera non novità di queste elezioni. Populista, semplificatore, volgare quando ci vuole, comunicatore dall’efficacia impressionante. Il suo Movimento è speculare al berlusconismo. Si fonda sul leaderismo e l’istrionismo nello stesso identico modo del berlusconismo. Poche parole, ancor meno concetti, e assoluta fedeltà. Chi non recepisce acriticamente gli umori (non parliamo di contenuti, per favore) del leader è un traditore. “Voi siete morti, noi siamo vivi”. Non facciamo l’errore di sottovalutare questo slogan. Il Movimento è a tutti gli effetti un partito, apparentemente democratico e sostanzialmente verticistico. Che agisce non attraverso i meccanismi dell’ottenimento del consenso propri di una struttura democratica ma attraverso un’impressionante mix di ritualizzazioni, manipolazioni e strategie di comunicazione interne proprie più di una chiesa, o di una setta, che di un partito. Non facciamoci incantare dalla pseudo democraticità della rete. La rete di Grillo è tutt’altro dalla rete di Internet. È un luogo chiuso (i Meet Up) e governato dal gruppo ristretto di chi “cura” immagine e contenuti di Grillo. Identità. Questo offre Grillo. Appartenenza. Fede. E non c’è niente di nuovo. Non è affatto “la nuova politica”. Qui siamo davanti a un gruppo di teste che scientificamente ha deciso di mettere su una “cosa” che ha poco a che fare con la politica e molto con il marketing ossessivo e virale. A casa mia una roba del genere si chiama manipolazione del consenso. E ha avuto un successo impressionante vista la pochezza della politica italiana.

È interessante che infatti siano proprio gli uomini della Casaleggio Associati a curare in todo ogni aspetto della comunicazione e dell’immagine e dell’organizzazione della rete di Grillo. Una società che si occupa, a livelli inimmaginabili, di marketing e e-commerce, sicurezza e comunicazione virale. E mica solo per Grillo. Magari fosse solo per Grillo. Gianroberto Casaleggio e Enrico Sassoon sono tutt’altro che due nerd smanettoni. Sono il top del settore. Con relazioni che vanno dai colossi multinazionali della comunicazione digitale alle multinazionali energetiche e del settore sanitario (pubblico e privato) e che siedono, nel caso di Sassoon, al tavolo dei poteri forti dell’Aspen institute e dell’ American Chamber of Commerce e del comitato scientifico del Sole 24 ore (della Confindustria) e che hanno un trascorso di peso nei gruppi Olivetti e Telecom. Come dire, niente di nuovo. Proprio niente. E se questo è il motore organizzativo e di idee della “nuova politica” io sono tornato ad essere minorenne.

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